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Conoscenza

Una buona notizia: esiste un mare di conoscenze fondate che possono esserci utili nella vita, aiutarci a decifrare la realtà e ad affrontare i problemi.

Una cattiva notizia: non ci rendiamo conto del mondo di conoscenze fuori di noi, non ci preoccupiamo di esplorarlo, ma presumiamo di sapere, attaccati alle nostre idee e teorie ingenue.

Conoscenza - Giugno 2020

Da anziani l'esperienza di vita sociale
è peggiore o migliore?

by Adele Bianchi e Parisio Di Giovanni

gennaio 2024

Una sorprendente scoperta recente

Con l’avanzare dell’età le reti sociali che le persone hanno solitamente si riducono. Si resta vedovi, si perdono fratelli e sorelle, altri parenti o amici. Diminuiscono anche i contatti, ad esempio perché i figli vivono con le loro famiglie, magari altrove. Vengono meno posizioni e ruoli sociali, come quello di lavoratore o genitore. Intuitivamente pensiamo che questo porti a star peggio.  

In passato anche gli studiosi pensavano che gli anziani avessero una vita sociale meno soddisfacente rispetto agli adulti di mezza età e ai giovani. Sembrava ovvio che con meno rapporti e meno impegni la qualità della vita sociale peggiorasse: si finisce per vivere isolati, chiusi in sé stessi, inattivi e per sentirsi inutili. La teoria del disimpegno, proposta negli anni ’60 del secolo scorso da Elaine Cumming e William Henry (1), sosteneva che con l’avanzare dell’età individuo e società si allontanano reciprocamente: da un lato il contesto di vita sociale si impoverisce, dall’altro l’individuo si adegua e si ritira concentrandosi sempre più sulla propria interiorità.
La teoria del disimpegno ha suscitato critiche, soprattutto perché l’idea che gli anziani si ritirino è apparsa fonte di pregiudizi e discriminazione. Si è sostenuto che, anche se oggettivamente c’è una contrazione della vita sociale, non vuol dire che gli anziani necessariamente debbano ritirarsi. Possono impegnarsi allacciando nuove relazioni e dando vita ad attività basate su nuovi interessi. Di qui gli interventi tesi a migliorare la vita degli anziani coinvolgendoli in attività e inserendoli in reti sociali di sostegno. Comunque, anche nelle critiche alla teoria del disimpegno, c’era l’idea di fondo che invecchiando la vita sociale tende a essere meno soddisfacente. Si restava nello stereotipo dell’anziano a disagio. Semplicemente si pensava che si potesse rimediare fornendo un’assistenza adeguata.

Negli ultimi decenni però le ricerche hanno mostrato un quadro diverso. Già dalla metà degli anni ’80 gli studi hanno cominciato a mettere in discussione lo stereotipo dell’anziano a disagio. L’ECA, Epidemiological Catchment Area, indagine tesa a stimare la prevalenza dei disturbi psichiatrici negli americani residenti in comunità, sorprendentemente ha mostrato che i più anziani avevano meno disagi psicologici (2). Sono arrivati poi importanti studi di popolazione.

Da una vasta e approfondita indagine condotta negli Stati Uniti alla fine del secolo scorso nell’ambito del National Study of Daily Experiences (NSDE), studio delle esperienze di vita quotidiana della MacAuthur Foundation, è emerso che gli anziani tendono a essere i più soddisfatti della loro vita sociale. È stato studiato un campione rappresentativo della popolazione statunitense di persone tra 25 e 74 anni che tenevano un diario delle esperienze di vita sociale e alla sera venivano intervistate telefonicamente. Ogni 8 giorni l’intervista riesaminava le esperienze della settimana e l’indagine è andata avanti per un anno.

Successivamente un’altra indagine, Social Relations and Mental Health Over the Life Course, ha messo a confronto un campione statunitense e uno giapponese di persone tra 8 e 93 e tra 8 e 96 anni (3). Intervistatori esperti conducevano interviste strutturate a domicilio e usavano appositi questionari, con domande che tra l’altro consentivano di valutare la frequenza di interazioni negative e positive con famigliari e cari amici. Gli anziani sperimentavano una vita sociale più soddisfacente, quelli degli Stati Uniti come quelli del Giappone, dove le famiglie tendono a essere più numerose, le reti sociali più ampie e la cultura è diversa. Le interazioni negative nel complesso tendevano a diminuire con l’avanzare dell’età.

In entrambe le indagini la maggiore soddisfazione per la propria vita sociale si accompagnava a meno esperienze di tensioni nel rapporto con gli altri. La seconda era proprio tesa a studiare le esperienze negative nei rapporti sociali e ha mostrato che, sia negli Stati Uniti che in Giappone, le esperienze negative diminuivano avanzando con gli anni. Il National Study of Daily Experiences mirava a studiare più in generale le esperienze stressanti della vita quotidiana. Successivamente però i ricercatori hanno ripreso i dati raccolti in quella indagine e con analisi mirate hanno appurato che i più anziani riferivano meno tensioni interpersonali (4).

Queste indagini hanno il limite che sono trasversali: mettono a confronto più anziani e più giovani esaminati tutti nello stesso momento ed espongono all’effetto coorte. Sono persone di generazioni diverse, nate e vissute in tempi diversi. Perciò le differenze che riscontriamo potrebbero essere dovute non all’età, ma a diverse esperienze di vita, a un gap generazionale. Ad esempio, si è ipotizzato che le nuove generazioni siano più abituate a comportamenti aggressivi perché esposte fin dall’infanzia a racconti, video e videogiochi violenti. A rigore dovremmo consolidare i risultati delle indagini trasversali con studi longitudinali, che seguono le persone durante l’avanzare dell’età.

Tuttavia negli ultimi anni molti studi hanno confermato che da anziani si sperimentano meno tensioni interpersonali e che la vita sociale è più soddisfacente e si sono accumulate una serie di prove collaterali che spiegano e rendono credibili le conclusioni delle indagini trasversali. Anche durante la pandemia da COVID-19 un’indagine su persone tra i 18 e i 76 anni ha messo in evidenza che gli anziani tendevano ad avere maggiore benessere emotivo, nonostante fossero la fascia di popolazione più esposta a rischi (5).

Ovviamente si tratta di tendenze statistiche. Ci sono casi di anziani in cui la contrazione della rete sociale è tale da portare all’isolamento e alla solitudine con conseguenti disagi psicologici o in cui malattie fisiche e mentali compromettono la qualità della vita sociale. In ogni caso è sbagliata l’idea che l’avanzare dell’età di per sé porti a una vita sociale peggiore e gli studi oggi ci dicono il contrario.

Il cambiamento di vedute portato dalla ricerca degli ultimi decenni non è cosa da poco. Certi stereotipi sugli anziani vanno rivisti, ma c’è di più: in una fase della vita in cui la socialità di fatto si contrae soddisfazione e benessere psico-sociale tendono ad aumentare. Si è parlato di “paradosso dell’invecchiamento”. Laura Cartensen, che ha elaborato la teoria della selettività socio-emotiva, una delle spiegazioni del fenomeno, in un articolo recente (6) ricorda che quando ha iniziato la sua ricerca, immersa nella cornice di allora, puntava a esaminare il disagio emotivo degli anziani e a trovare il modo di alleviarlo. Si è trovata invece di fronte a tutt’altro, a dover cercare di rendere ragione del paradosso di una vita sociale più soddisfacente. Perciò riflette su come il progresso della scienza ci porta a scoprire che abbiamo torto.

Il ruolo chiave della diminuzione delle tensioni interpersonali

Stando ai risultati delle indagini, sembra che il fatto che abbiano meno esperienze di tensioni interpersonali sia un fattore chiave che porta gli anziani ad essere mediamente più soddisfatti della loro vita sociale.

Le tensioni interpersonali si verificano abitualmente nella vita sociale. Con gli estranei sono dovute di solito al fatto che qualcuno ha violato una norma sociale. Pensiamo al caso di una persona che ignora una lunga coda e scavalcando tutti va dritto allo sportello. Tra persone che hanno relazioni stabili, come famigliari, amici, colleghi di lavoro, vicini di casa, le tensioni di solito nascono a causa di divergenze, punti di vista diversi su comportamenti o decisioni. Ad esempio: non ho fatto quello che mi hai chiesto perché ero impegnato/tu non mi consideri abbastanza.

Più le relazioni sono profonde, più c’è intimità, cioè ci si apre l’uno all’altro, più è facile che emergano divergenze e nascano tensioni. Accade perché i partner cercano di costruire una visione condivisa. La comunanza di vedute rafforza la loro relazione. Tuttavia, proprio perché si sforzano di condividere le loro idee e si aprono l’uno all’altro, scoprono che non possono arrivare a condividere tutto, per il semplice fatto che sono due persone diverse, ciascuna con una propria esistenza. La relazione profonda si basa sulla condivisione, ma è fatta anche di diversità che vanno riconosciute.

Capiamo come mai le divergenze, anche radicali, sono normali, fanno parte della natura stessa della relazione. Per salvaguardare le relazioni e star bene occorre accettare le divergenze e sapersi muovere quando emergono, così da evitare le tensioni o risolverle rapidamente.

Cover ebook Sanare contrasti insanabili.jpg

Nei rapporti con gli altri a volte scopriamo che su qualcosa, magari qualcosa cui teniamo, la pensiamo in modo differente e non c’è verso di andare d’accordo. A volte le divergenze ci trascinano in contrasti insanabili, che ci fanno star male, sono esperienze che ci segnano. Saper gestire i contrasti è un'arte che possiamo sviluppare e che può migliorarci la vita.

Se da un lato sono una normale componente della vita sociale, dall’altro le tensioni interpersonali sono una importante causa di stress e insoddisfazione, che in genere sottovalutiamo. Vive meglio chi le sperimenta meno, come gli anziani. Ma come spiegare il fatto che con l’avanzare dell’età tendiamo a fare meno esperienze di tensioni interpersonali?

Condizioni che espongono meno alle tensioni?

Possiamo supporre che gli anziani sperimentino meno tensioni interpersonali perché vivono in condizioni in cui capitano meno. Potrebbe essere proprio il fatto di vivere più isolati ad avvantaggiarli: meno rapporti, meno tensioni. L’ipotesi è suggestiva, ma fa nascere dubbi il tipo di rapporti che intrattengono gli anziani. Se da un lato non hanno più i rapporti dell’ambiente lavorativo, che è una fonte importante di conflitti interpersonali, dall’altro tendono a restringere la propria rete sociale a famigliari e amici. Specie nelle relazioni con i famigliari, contrariamente a quel che si può credere, è più facile che nascano tensioni. Non a caso nell’indagine che ha messo a confronto americani e giapponesi (3), gli anziani in Giappone, dove ci sono più famiglie allargate con più generazioni a stretto contatto, sembrava avessero più tensioni con i famigliari, in particolare con i figli adulti.

È pur vero però che gli anziani tendono a ristrutturare la loro rete di relazioni, facendo una sorta di potatura, mantenendo le più gratificanti e lasciando andare le altre. Lo fanno nella misura in cui hanno facoltà di manovra, dato che ci sono relazioni, come quelle con i famigliari, alle quali è difficile sottrarsi. Secondo la teoria della selettività socio-emotiva (7) gli anziani avvertono che l’orizzonte temporale che hanno davanti è breve. Di conseguenza danno priorità a star bene nel presente, piuttosto che investire per il futuro. Di qui la tendenza a selezionare e conservare le relazioni più soddisfacenti.

Più consistente è un’altra ipotesi sul perché gli anziani sono meno esposti a tensioni interpersonali: gli altri abitualmente li trattano in modo da evitare conflitti con loro. Le persone di solito nutrono idee sbagliate sull’invecchiamento, come la convinzione, anche questa errata, che capacità mentali e padronanza inesorabilmente declinino. Siccome li percepiscono fragili e poco capaci, gli altri tendono a essere nei confronti degli anziani più tolleranti, più benevoli e meno propensi a entrarci in contrasto. “Ironia della sorte – scrivono Gloria Luong e colleghi (8) – degli stereotipi negativi possono portare le persone a trattare gli anziani in modo più gentile”.

In una ricerca di Joan Erber e colleghi (9) ai soggetti sperimentali si faceva leggere il racconto di un incidente capitato in un negozio. Un impiegato avvertiva il direttore che una donna era appena uscita indossando un cappello che non aveva pagato e la descriveva. Per metà dei soggetti era una donna di circa 20 anni, con capelli castano-chiari. Per l’altra metà una di circa 70 anni, con capelli grigi. Il direttore raggiungeva la donna nel parcheggio e, quando le chiedeva del cappello, questa rispondeva: “Lo stavo provando e uscendo mi sono dimenticata di averlo ancora indosso”. Quelli che pensavano che la donna fosse anziana si aspettavano che il direttore l’avrebbe trattata con più garbo, meno rabbia e meno severità. Evidentemente credevano più che la sua era davvero una dimenticanza e pensavano che anche il direttore avrebbe letto così l’accaduto. Del resto messi di fronte a una versione ambigua del racconto, in cui non erano chiare le intenzioni della persona uscita col cappello, i soggetti sperimentali erano propensi a giudicare il comportamento una dimenticanza se la persona era anziana e un furto se era giovane.

Gli anziani possono essere trattati meglio anche in forza di stereotipi positivi, che ritroviamo in culture dove per tradizione sono considerati depositari della saggezza, figure di riferimento e oggetto di grande rispetto. Nella tradizione cinese, seppure cambiata nel tempo, c’è la pietà filiale, xiao, prescrizione confuciana secondo la quale nel rapporto con i genitori bisogna mostrare rispetto, essere ubbidienti e onorarli apertamente e pubblicamente (10).

A trattare meglio gli anziani con i quali si ha un rapporto stretto spinge poi la percezione di una prospettiva temporale limitata della relazione, il fatto che si pensa che non si avranno ancora molte occasioni per interagire e stare insieme. Karen Fingerman (11) in uno studio su madri anziane e figlie adulte ha notato che queste non reagivano negativamente a comportamenti della madre che avvertivano come fastidiosi. Si giustificavano dicendo che evitavano il conflitto per non guastare il tempo prezioso che rimaneva da vivere con le loro madri. In un lavoro successivo Fingerman e colleghi (12) agli intervistati hanno chiesto di immaginare che una persona con cui erano in rapporto si era comportata in modo offensivo nei loro confronti e di dire come avrebbero reagito. In alcuni casi la vicenda riguardava partner relazionali giovani, in altri anziani. Inoltre in alcuni casi, che il partner fosse giovane o anziano, in previsione c’era un suo allontanamento, perché si trasferiva e i contatti erano difficili, per cui il tempo rimanente dell’esperienza relazionale era limitato. Le reazioni al comportamento offensivo erano più accomodanti nel caso in cui i partner erano anziani e, che questi fossero giovani o anziani, se la prospettiva temporale della relazione era ridotta. Sembra che la sensazione che resti poco tempo per relazionarsi sia un fattore che conta nel modo di rapportarsi e verosimilmente influisce anche sull’indulgenza nei confronti degli anziani.

Migliore gestione dei conflitti?

Le condizioni esterne non bastano a spiegare il fatto che gli anziani vivono meno tensioni interpersonali. Molto dipende da loro, da come gli anziani guardano ai rapporti sociali e da come li gestiscono. Gli anziani sono in genere più attenti a prevenire le tensioni interpersonali e a risolverle non appena si presentano (13,14). Quando nasce un contrasto con un’altra persona possiamo adottare strategie diverse. Schematicamente se ne possono distinguere quattro (4), descritte in tabella.

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Gli anziani in genere preferiscono adottare strategie passive costruttive (4, 15). Si ritirano, lasciano correre, passano a occuparsi d’altro, ma lo fanno in modo che non disturbi l’altro e tengono sotto monitoraggio la situazione per accertarsi che non ci sia bisogno di intervenire per mantenere la pace. Anche se in prima battuta non le preferiscono, se occorre passano a strategie attive costruttive. Comunque abitualmente evitano le distruttive. Sembra che queste scelte strategiche degli anziani di fatto si rivelino le più efficaci (16).

Gli anziani poi tendono a reagire agli attacchi in modo più sereno e distaccato. Susan Charles e Laura Cartensen (17) hanno fatto ascoltare a adulti più giovani e più anziani registrazioni in cui altre persone sembrava parlassero male di loro. Rispetto ai più giovani, i più anziani giudicavano i commenti meno negativi, provavano meno rabbia e più tristezza e si interessavano meno alle motivazioni che avevano spinto quelle persone a fare quei discorsi sul loro conto.

Come spiegare questi modi di fare dei più anziani?

Le ragioni per cui gli anziani tendono a comportarsi così sono diverse e tra loro collegate: dietro al loro approccio al problema delle tensioni sociali c’è un intreccio di fattori. Uno di questi è la ricerca del benessere emotivo. Gli anziani in genere concentrano le loro risorse per vivere in pace con se stessi e con gli altri, più che per ottenere certi risultati che hanno in mente.

Lo fanno in parte perché avvertono di avere davanti un orizzonte temporale breve. Su questo ha insistito la teoria della selettività socio-emotiva, secondo la quale privilegiamo il sentirci bene se pensiamo ci resti poco da vivere (7). Da notare però che non sempre gli anziani rinunciano a investire per il futuro concentrandosi sull’obiettivo di star bene nel presente. A volte a tarda età cambiano in tutto o in parte vita, danno una svolta, e magari investono in nuove imprese. Ci sono poi persone creative che si dedicano tutta la vita a conoscere e ideare cose nuove e originali. Per queste persone impegnarsi in vista di cose da realizzare può essere fonte di benessere emotivo.

In tarda età poi capita più spesso che le persone si dedichino a riflettere sul senso della vita. C’è chi si concentra sul bilancio della propria vita e chi si interroga sull’esistenza in generale. Nella misura in cui riflettendo gli anziani arrivano ad accettare i limiti della vita, la considerano un passaggio, dove ciò che importa è sentirsi bene, specie nelle relazioni che contano. Ecco che molte cose ritenute prima importanti diventano secondarie.

Spinge a cercare il benessere emotivo anche il fatto che l’anziano spesso seleziona i legami per lui importanti e si dedica a prendersene cura per ottenere che quelle relazioni siano esperienze pienamente soddisfacenti per sé e per i partner. Sembra che tendano a fare piuttosto bene queste selezioni: in genere scelgono accuratamente i partner e le relazioni su cui più vale la pena di investire. Alcuni studi indicano che gli adulti più anziani sono più abili nel valutare le persone, più attenti alla complessità delle valutazioni, cauti e moderati nei giudizi (18, 19). Con l’età acquisiscono più esperienza di rapporti con partner problematici (20). Tendono a elaborare sugli altri giudizi più complessi (21). Incorrono meno nell’errore fondamentale di attribuzione, cioè la tendenza a spiegare i comportamenti sopravvalutando il peso delle persone e sottovalutando quello delle situazioni (22). Di conseguenza, quando uno fa qualcosa di poco morale o spiacevole, non saltano subito alla conclusione che non è onesto o che è sgarbato, ma si interrogano sulle circostanze che possono averlo spinto ad agire così.

Un altro fattore che aiuta a capire l’approccio degli anziani alle tensioni interpersonali è il senso di padronanza. Siamo portati a pensare che gli anziani debbano sentirsi poco padroni di sé. Questo è vero se intervengono problemi particolari, come quelli di salute o economici. Normalmente però gli anziani si sentono più sicuri e nelle relazioni si preoccupano meno di controllare l’altro e fargli fare ciò che desiderano. Accade soprattutto perché privilegiano il benessere emotivo e la riuscita delle relazioni cui tengono, rispetto a finalità (ad esempio, avere prestigio) che richiedono di tenere sotto controllo gli altri. Si spiega così come mai possono non arrabbiarsi se uno parla male di loro, né essere interessati al perché lo fa.

È stata chiamata in causa anche la tendenza alla positività (23), un comune bias chiamato anche effetto Pollyanna, dal nome della protagonista di una famosa storia per ragazzi, che vedeva lati positivi in tutto. Tutti noi tendiamo a vedere la vita più positiva di quel che è, a considerare gli eventi positivi (salute, benessere, riuscita, giustizia, ecc.) la regola e i negativi eccezioni. Sembra che gli anziani lo facciano di più, cosa che li porta a essere fiduciosi anche nelle relazioni interpersonali e a trascurare gli incidenti, considerandoli occasionali o espressione di problemi risolvibili.

Una parte degli anziani però unisce alla tendenza alla positività la consapevolezza dei limiti della vita: pensano positivo e al tempo stesso hanno in mente che bisogna aspettarsi eventi negativi e accettano questa condizione. Quelli che fanno così vivono meglio, anche nei rapporti sociali. Sono gli anziani che tipicamente, quando c’è un incidente in una relazione, ad esempio nella coppia, lo prendono come un motivo per sorridere insieme delle contraddizioni della vita: ci amiamo tanto e abbiamo questi contrasti, tra noi tutto è positivo eppure il negativo è dietro l’angolo.

Siamo arrivati così a un altro fattore importate per capire i modi in cui gli anziani di solito gestiscono i conflitti interpersonali: l’accentuarsi del pensiero adulto. In età adulta le persone tendono a sviluppare un modo di pensare caratterizzato da alcuni tratti, descritti già negli anni ’80 da studiosi di psicologia dello sviluppo cognitivo che si rifacevano a Piaget (24, 25, 26). Un tratto è il relativismo, la tendenza a cogliere che sulla realtà ci sono punti di vista diversi, ognuno con un suo senso, per cui uno stesso fatto, ad esempio un incidente relazionale nella vita di coppia, può essere letto in tutt’altro modo dal partner. C’è poi la dialettica, il rendersi conto che nella realtà ci sono contraddizioni e trovare il modo di fare sintesi, di conciliare gli aspetti contrastanti senza sentirsi obbligati a scegliere l’uno o l’atro. Quando l’anziano pensa che la vita è positiva e al tempo stesso negativa, è nella dialettica, sta vedendo contraddizioni e in qualche modo le sta conciliando. Altro tratto del pensiero adulto è l’integrazione di oggettività e soggettività, guardare alle esperienze sociali considerando sia il lato esterno, le vicende come oggettivamente sono, sia il lato interno, come le vivono i partecipanti. Così, se uno ha tenuto un comportamento socialmente discutibile, bisogna anche chiedersi in quali condizioni era e come le viveva. C’è infine il problem finding, il guardare all’esperienza con altri occhi, interrogarsi, inquadrare diversamente le cose e individuare nuovi problemi da affrontare.

Il pensiero adulto è di aiuto nella gestione delle tensioni interpersonali. Quando una tensione si affaccia, consente di distaccarsi, guardare alla complessità degli eventi e decentrarsi, uscire da sé per mettersi nei panni dell’altro. Gli adulti più giovani però, anche se hanno sviluppato un pensiero adulto, paradossalmente sono ostacolati dal senso di responsabilità. Avvertono di doversi impegnare e di avere obblighi verso se stessi (devono costruire la propria vita), sul lavoro, in famiglia. Questo li porta ad avere una più elevata motivazione al successo: vogliono ottenere i risultati e evitare i fallimenti. Di per sé è cosa utile: le ricerche dimostrano che in tutti i campi più siamo motivati al successo più abbiamo probabilità di avere successo. Tuttavia, presi dalla preoccupazione di riuscire, finiscono per essere troppo attaccati agli obiettivi che hanno in mente e non riescono a distaccarsi e decentrarsi, comprendendo gli altri e le situazioni. Gli anziani invece, proprio perché non hanno più certe responsabilità e non sono presi da obiettivi da raggiungere, possono giovarsi del pensiero adulto nella gestione delle tensioni.

Teniamo presente che non tutti gli adulti sviluppano un pensiero adulto. Allo stesso modo non tutti gli anziani accentuano il pensiero adulto e non tutti mostrano quei modi di pensare e fare che consentono di gestire meglio i conflitti nelle relazioni. Parliamo di tendenze che con l’età si manifestano, non di cambiamenti che intervengono sempre. Può accadere anche che un anziano abile nel gestire i conflitti attraversi momenti critici in cui ci riesce meno o addirittura diviene conflittuale. Non meravigliamoci perciò se ci capita di notare anziani che non ci sembrano particolarmente abili a prevenire e risolvere le tensioni.

Adele Bianchi e Parisio Di Giovanni

RIFERIMENTI

  1. Cumming E., Henry W. E. (1961) Growing old: The process of disengagement. Basic Books.

  2. George L. K., Blazer D. F., Winfield-Laird I., Leaf P. J., Fischbach R. L. (1988) Psychiatric disorders and mental health service use in later life: Evidence from the Epidemiologic Catchment Area Program. Epidemiology and aging, 189-219.

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  4. Birditt K. S., Fingerman K. L., Almeida, D. M. (2005) Age differences in exposure and reactions to interpersonal tensions: a daily diary study. Psychology and aging, 20(2): 330.

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  23. Charles S. T., Mather M., & Carstensen L. L. (2003) Aging and emotional memory: the forgettable nature of negative images for older adults. Journal of Experimental Psychology: General, 132(2): 310.

  24. Kramer D. A. (1983) Post-formal operations? A need for further conceptualization. Human Development, 26(2), 91-105.

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