Curiosità
Possiamo vedere tre scene diverse. Probabilmente ne abbiamo vista una. Sforziamoci di vedere la seconda e poi la terza. Se arriviamo a vederle tutte e tre, poi possiamo passare dall'una all'altra.
Questa è una classica figura ambigua che ci fa sperimentare una percezione fluttuante. L'esperienza è interessante. Come veniamo a sapere che le scene possibili sono tre, la nostra mente si mette a lavoro per decifrare la figura. Siamo incuriositi e proviamo piacere a metterci alla prova.
La curiosità è una motivazione innata, che ci spinge a esplorare l'ambiente e che tipicamente scatta quando siamo davanti a stimoli insoliti, non scontati, ma al tempo non tanto complicati da risultare per noi incomprensibili. La vita sociale, per una serie di ragioni, tende a reprimere la nostra innata curiosità, fin da quando siamo piccoli, in famiglia, come a scuola o nel lavoro. Restiamo comunque curiosi e a volte lasciare spazio alla curiosità ci apre mondi insospettati e affascinanti e ci fa guardare alle cose con altri occhi.
La bella vita del cacciatore-raccoglitore
by Adele Bianchi
Eravamo cacciatori-raccoglitori
luglio 2020
La nostra specie, Homo sapiens, c’è da circa 500 mila anni. La nostra sottospecie, Homo sapiens moderno o sapiens sapiens, da circa 100 mila. Per la quasi totalità della nostra storia (oltre il 97% della vita della specie e circa il 90% di quella della sottospecie moderna) siamo vissuti in società di caccia e raccolta. Sono società in cui ci si alimenta grazie a cibi che il territorio offre, raccogliendo vegetali o uova o piccoli animali e andando a caccia o pescando.
Circa 13 mila anni fa comincia la rivoluzione neolitica, a partire dalla zona del Tigri e dell’Eufrate, la Mezzaluna fertile, poi in Egitto e in altri luoghi fino a diffondersi. Il clima decisamente più caldo e la siccità rendono sempre più difficile vivere di caccia e raccolta. Gli uomini rispondono alla minaccia ambientale prendendosi cura delle piante e addomesticando animali fino a sviluppare l’allevamento e l’agricoltura. Grazie alla rivoluzione neolitica la popolazione, che sulla Terra in 2 mila anni era diminuita del 20%, comincia a cresce rapidamente: è più che triplicata nei 4 mila anni successivi. Con le nuove forme produttive nascono società di pastori, di orticoltori e agricoltori. Società di caccia e raccolta continuano a esistere, anche se ricacciate in ambienti marginali.
Compaiono poi le società statali, a partire dalla Mesopotamia (ancora la terra dei due fiumi, il Tigri e l’Eufrate), dove forse la prima è quella della città di Uruk, intorno a 5500 anni fa. Con l’avvento delle società statali, grandi, organizzate, con un potere centrale e la sovranità su popolazione e territorio, le piccole società di cacciatori-raccoglitori sono state ancora più emarginate, si sono rifugiate in territori isolati.
In età moderna, per le pressioni degli Stati, seppure a volte animati da buone intenzioni, di operatori economici spinti magari da interessi su quei territori o di altri soggetti, le società di caccia e raccolta hanno stentato a resistere e per lo più sono scomparse. In tempi brevi le persone si sono trovate a vivere in modo radicalmente diverso, in contesti sociali per loro inimmaginabili.
Si è parlato di etnocidio, cioè di una azione sistematica, volontaria o involontaria che sia, di annientamento della cultura di questi popoli. Nel caso degli Aborigeni australiani il fenomeno ha assunto connotati tragici. La colonizzazione ha prodotto un vero e proprio sterminio, a causa di omicidi, massacri, perdita della terra e malattie infettive, nei confronti delle quali gli Aborigeni, diversamente dai colonizzatori, non erano immunizzati. In altri casi, come quello dei Boscimani del Kalahari, paradossalmente a distruggere la loro cultura sono stati gli interventi per lo sviluppo. I Boscimani, vivendo nel deserto del Kalahari, si erano adattati a un territorio arido e alle siccità. Con la civiltà sono arrivati i pozzi, le fattorie, gli alberghi, il turismo, in particolare quello etnico, in cui il turista va a conoscere una cultura diversa dalla sua. I Boscimani si sono trovati così a fare i lavoratori e consumatori in una moderna società statale e la loro cultura è diventata quasi una rappresentazione teatrale.
Una vita di stenti e selvaggia?
Il filosofo inglese del Seicento Thomas Hobbes aveva sostenuto che la vita dei nostri antenati era misera e corta. A suo avviso era anche brutale e pericolosa, sia per le minacce naturali, sia perché, senza regole, ordine sociale e distinzioni di proprietà, ognuno era perennemente in lotta con gli altri: c’era bellum omnium contra omnes. Per questo, pur di uscire dallo stato di natura, l’uomo primitivo aveva accettato di sottomettersi allo Stato, un mostro, il Leviatano.
John Locke, altro filosofo inglese del Seicento, pensava che i nostri antenati non conducevano una vita misera e che avevano anche il senso della proprietà e un certo ordine sociale. Credeva però che in assenza di leggi e giudici non riuscissero a gestire le controversie e patissero le conflittualità.
Fino alla metà del Novecento anche studiosi, quali antropologi, paleontologi, storici, tendevano a pensare che i cacciatori-raccoglitori conducessero una vita di stenti e selvaggia. Alla fine degli anni ’50 l’antropologo Robert Braidwood sosteneva che per procurarsi il cibo si sottoponessero a ritmi massacranti senza pause per sé e per la vita sociale. La rivoluzione neolitica, scrive, “mise il tempo libero alla portata di tutti, riducendo il tempo di attività necessarie per procacciarsi il nutrimento”. Sosteneva anche che i cacciatori-raccoglitori conducessero una vita senza consapevolezza e spiritualità, da animali. “Un uomo che trascorra l’intera esistenza – scrive – a seguire le tracce degli animali solo per ucciderli e che si sposti da un luogo di raccolta all’altro vive anch’egli come un animale”.
La scoperta sorprendente di Richard Lee
Quella mattina del 1963 l’antropologo Richard Lee era appena arrivato tra i !Kung, una tribù di Boscimani del Kalahari, che allora vivevano ancora isolati nel loro modo tradizionale. Alcuni di loro gli chiedono un passaggio in Land Rover fino a un bosco, dove possono raccogliere noci di mongongo, il loro cibo principale e anche quello che più apprezzano. Dicono che hanno fame e che nelle vicinanze non è rimasto praticamente più niente da raccogliere. Siamo a ottobre, verso la fine della stagione secca, che inaridisce la boscaglia e rende più rare le risorse di cibo vegetale. Lee pensa che abbiano serie difficoltà a procurarsi da mangiare e senz’altro acconsente.
Il viaggio è alquanto avventuroso. «Arrancammo per ore – scrive Lee – a trazione integrale e a passo d’uomo, dove non era mai transitato prima un autocarro, sterzando per evitare formicai e aggirando alberi caduti». Una volta arrivati a destinazione, Lee si trova di fronte a una sorpresa. In due ore i !Kung raccolgono una quantità impressionante di cibo. Alla fine hanno un carico che per le donne va dai 14 ai 23 chili a testa e per gli uomini dai 7 ai 12 chili. Nel complesso ciascuno ha raccolto cibo sufficiente a una persona per 5-10 giorni. «Un guadagno niente male – commenta Lee – per due ore di lavoro!».
Richard Lee circondato dai !Kung, che dopo aver raccolto cibo in abbondanza in due ore si rilassano
e passano il tempo insieme piacevolmente
e in tutta tranquillità.
Quando i !Kung gli avevano chiesto il passaggio in Land Rover, Lee aveva pensato che si trattasse davvero di gente che viveva di stenti, come si pensava. Poche ore dopo però si era ricreduto: avrebbero potuto benissimo andare a piedi e tornare nello stesso tempo portando tutta quella quantità di cibo. Lamentandosi delle proprie condizioni avevano detto una mezza bugia. Lo avevano fatto per convincerlo e godere così della comodità e del gusto di andare in Land Rover. «Il mio primo giorno di ricerca sul campo – scrive Lee – mi aveva già insegnato a mettere in discussione un giudizio diffuso sui cacciatori-raccoglitori: che siano condannati alla precarietà, a una lotta costante per l’esistenza». Altre sorprese attendevano Lee durante il suo soggiorno presso i !Kung.
Tutt'altro che selvaggi
In khoisamide, la lingua dei !Kung, non esiste la parola “capo”. Lee spiegò ai !Kung cos’è per noi un capo e chiese se avessero dei capi. Si sentì rispondere: “Certo che ne abbiamo! In pratica siamo tutti capi”. In effetti i !Kung, nella loro cultura tradizionale, si impegnano tutti nell’interesse collettivo e il contributo di ognuno viene apprezzato. Tendono ad agire in modo cooperativo e il potere dei singoli sta in questo. Se ci sono da prendere decisioni collettive si riuniscono in assemblee, in cui insieme esaminano i problemi e discutono e dove l’ultima parola viene lasciata a chi si pensa abbia maggiore saggezza, gli anziani e le donne.
Sono tutti capi anche perché i !Kung sono attenti a gestire i rapporti in modo che nel gruppo sociale ci sia una sostanziale eguaglianza. Chi mostra particolari capacità viene stimato e può divenire autorevole, uno cui gli altri danno retta. Lo è però finché manifesta quelle capacità. Inoltre il suo prestigio viene garbatamente sminuito ironizzando, scherzando secondo modalità che tutti accettano, consapevoli che servono a evitare che qualcuno prenda il sopravvento sugli altri.
Tra i !Kung la proprietà esiste, ognuno ha i suoi beni. Tuttavia nessuno li accumula. I cibi raccolti e la carne delle prede vengono spartiti, in modo che tutti ne abbiano sempre abbastanza. Siccome contano su ciò che il territorio offre e sulla spartizione i !Kung non fanno scorte di cibo. Come dice l’antropologo Marvin Harris, la reciprocità e la loro banca. L’accumulo di altri beni è frenato dallo xharo: se una persona o una famiglia si trova beni in eccesso, li dona ad altri. Come osserva Marshall Sahlins, i cacciatori-raccoglitori non sono poveri, sono austeri, si accontentano di quel che è necessario.
Tutto sommato nella cultura tradizionale dei !Kung non troviamo neppure disparità di genere. Da un lato è vero che le donne sono escluse dalla caccia, ritenuta molto importante nonostante il grosso dell’alimentazione si basi sulla raccolta praticata abitualmente dalle donne. D’altra parte le donne sono considerate sagge e a loro spetta l’ultima parola nelle decisioni collettive e anche in scelte della vita di coppia e famigliare.
Richard Lee è poi rimasto stupito da quelli che chiama divorzi cordiali. I !Kung sono monogami e superati i primi cinque anni (una sorta di periodo di prova) di regola non ci si lascia più. Quando un matrimonio fallisce in genere sono le donne a stabilire che ci si separa. Tutto avviene comunque in tranquillità, qualcosa difficile da comprendere per chi viene da culture come la nostra. Del resto i !Kung sono tolleranti in molte cose, anche quando qualcuno non rispetta certe regole sociali: è come se avessero il senso dei limiti umani.
Diversamente da quello che immaginava Locke, non hanno problemi a gestire le controversie. Noi, abituati a società statali, pensiamo che occorrano leggi e autorità giudiziaria. Nelle società senza stato però le controversie si gestiscono tranquillamente grazie a sistemi di pacificazione: pratiche socialmente consolidate che mirano a evitare che si scivoli in conflitti e a conservare i buoni rapporti, senza stabilire chi ha torto e chi ha ragione in base a criteri generali e astratti di giustizia. Presso i !Kung, non appena tra alcuni nasce una tensione, gli altri scherzano oppure tutti insieme si mettono a fumare passandosi la pipa o si organizza una danza.
I !Kung smentiscono palesemente Robert Braidwood quando dice che i cacciatori-raccoglitori sono come animali. Intanto hanno un bagaglio impressionante di conoscenze che si tramandano. Le donne sono esperte di botanica e zoologia in modo da essere abili nella raccolta di piante, radici commestibili e piccoli animali. I maschi hanno un patrimonio di conoscenze utili a studiare le tracce lasciate dalle prede ricavandone conclusioni impensabili per chi non ha quell’arte tradizionale. Alcuni ricercatori hanno provato a trasferire questo patrimonio in banche dati e software.
Impressiona l’abilità sfoderata nella gestione delle relazioni interpersonali, ma forse ancora di più la loro sensibilità etica. Quando spartiscono la carne i !Kung praticano un rito che serve non solo a ribadire la solidarietà tra loro, ma anche a legittimare la caccia. Nella visione dei !Kung non sarebbe lecito uccidere un animale. Se lo fanno è solo perché sono in gioco la sopravvivenza è il bene della collettività. La caccia è un’impresa eroica che testimonia una fragilità di fondo: l’incapacità di sopravvivere nel pieno rispetto della natura.
Ci ha corrotti la civiltà?
Come c’è stato chi ha giudicato negativamente la vita da cacciatori-raccoglitori che ha caratterizzato il passato dell’umanità, c’è chi l’ha vista al contrario come espressione di una natura incontaminata che la civiltà ha guastato. I primi partivano dall’idea che il cammino dell’umanità è di progresso, gli altri che, a dispetto di una evoluzione apparente, l’umanità è andata peggiorando.
Nell’Ottocento alcuni hanno sostenuto che in passato c’era una vita comunitaria senza proprietà, né famiglie. Secondo Engels, teorico del comunismo, le famiglie sono realtà animate da interessi egoistici, attaccate alle proprietà, che sono intervenute a turbare la vita primitiva dove tutto era in comune. Quel che sappiamo dei cacciatori-raccoglitori, non solo grazie agli studi sui !Kung, ma anche su altri popoli e paleontologici, smentisce queste idee. Tra i cacciatori-raccoglitori abbiamo proprietà e famiglia e questa addirittura è nucleare, formata dai coniugi e i figli, e basata sulla monogamia. Del resto dagli studi sui primati sappiamo che le famiglie ci sono anche lì, per cui sembrano avere un fondamento naturale. Semmai la cultura è intervenuta poi a darle forme diverse.
Studiando la vita in società come quella dei !Kung, più sensata può apparire la nostalgia di Jean-Jacques Rousseau per il buon selvaggio e la natura umana originaria, espressa nel Contratto sociale e nell’Emilio, entrambi del 1762. Lo spirito di cooperazione, l’egualitarismo, la reciprocità, i matrimoni che tendono spontaneamente a durare tutta la vita, i divorzi cordiali, l’attenzione a gestire i rapporti interpersonali e la pace sociale, il rispetto per la natura sono tutte cose che ci appaiono profondamente umane e possono destare in noi ammirazione.
Con l’avvento delle società statali gli esseri umani hanno conosciuto l’assoggettamento al potere centrale, il ricorso alla forza e alla coercizione, quella che il sociologo Max Weber chiama “violenza legittima”, il prelievo forzoso di beni e risorse. Si sono trovati di fronte a ideologie tese a legittimare l’assoggettamento al potere statale, ora religiose, ora laiche, che fanno appello al bene del popolo. Hanno conosciuto le disuguaglianze, la stratificazione sociale e le guerre.
Molto prima di Rousseau, gli uomini delle prime società statali hanno sentito nostalgia per il passato e hanno raccontato la storia dell’umanità come decadenza da una condizione originaria di benessere. Troviamo questi racconti nei miti della caduta dell’uomo, come la storia di Adamo ed Eva o il poema di Gilgamesh. Allora chi viveva in società statali aveva vicino società senza stato o ne aveva memoria e poteva fare confronti. La nostalgia è espressa magnificamente in bellissimi versi della letteratura della Mesopotamia.
Una volta, tanto tempo fa, non esistevano serpenti né scorpioni /Non esistevano iene né leoni/ Non esistevano cani selvaggi né lupi/ non esisteva paura né terrore/l’uomo non aveva rivali.
Sembra proprio che con l’avanzare della civiltà abbiamo perso molto. Tuttavia, se guardiamo all’altra faccia della medaglia, dobbiamo ammettere che abbiamo anche guadagnato molto. Abbiamo avuto una crescita demografica eccezionale, assolutamente impossibile senza uno sfruttamento intensivo delle risorse e una organizzazione gestita con un potere centrale. Inoltre il grande sviluppo delle attività intellettuali, delle scienze, delle arti, delle tecnologie, dei trasporti, delle comunicazioni c’è stato grazie alle società statali. L’umanità ha fatto grandi passi avanti. È pur vero che, come lo stesso Rousseau e altri hanno notato, il progresso delle conoscenze e delle tecnologie non coincide necessariamente col progresso umano. È vero che, come aveva notato Arthur Shopenhauer già nella prima metà dell’Ottocento l’uomo sta sfidando la natura. Che dire? Ci sono pro e contro, del resto nulla è univoco, tutto è “giano”.
Ma i cacciatori-raccoglitori dei tempi nostri sono come i nostri antenati?
Dobbiamo essere estremamente cauti a traferire ai nostri antenati preistorici le conoscenze che abbiamo sui !Kung o su altri cacciatori-raccoglitori studiati in tempi recenti. Nella seconda metà del XX secolo gli antropologi si sono dedicati con entusiasmo a studiare i popoli di cacciatori-raccoglitori esistenti. Pensavano che fossero sopravvissuti per millenni conservando le tradizioni di un tempo, tanto che li chiamavano “primitivi contemporanei”. Per loro quei popoli rappresentavano uno straordinario osservatorio per capire la vita di un passato dell’umanità su cui l’archeologia ci dice relativamente poco.
Dagli Ottanta l’idea che la vita dei cacciatori-raccoglitori dei tempi nostri sia come quella dei nostri antenati è stata criticata. Un dubbio serio nasce se consideriamo che nel paleolitico i cacciatori-raccoglitori avevano a disposizione territori più ampi e più ricchi. Negli ultimi millenni questi popoli sotto la pressione di popoli con altre forme di società si sono ritirati in territori marginali. I Boscimani, ad esempio, una volta occupavano tutta l’Africa meridionale e sono stati costretti nel deserto del Kalahari sotto la pressione dei Bantu e degli Ottentotti.
È credibile che i cacciatori-raccoglitori del paleolitico vivessero in condizioni di maggiore abbondanza rispetto a quelli studiati in tempi recenti. Non sappiamo quali forme possono avere assunto le società di caccia e raccolta in condizioni di maggiore disponibilità di risorse. Probabilmente erano più popolose, a volte stanziali e meno egualitarie. I reperti archeologici indicano che, oltre che accampamenti mobili, c’erano residenze stabili, dato che sono state ritrovate pavimentazioni, come quella della zona di Périgord, in Francia. Le sepolture differenziate, con ornamenti diversi, lasciano supporre differenze di rango.
In ogni caso, anche se non le ritraggono esattamente, gli studi recenti ci forniscono suggerimenti preziosi su come erano le società di caccia e raccolta del lontano passato dell’umanità.
Adele Bianchi