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Immaginazione

Il sociologo Charles Wright Mills,  ha avuto un’intuizione brillante. Abitualmente guardiamo alla nostra piccola sfera privata di esperienze quotidiane. Non ci interroghiamo sul mondo sociale più ampio e sui grandi cambiamenti di questo mondo che condizionano la nostra vita. Guardiamo al contesto storico-sociale come a uno spettacolo. Scrive: l’esperienza e l’azione dell’uomo comune sono circoscritte alla sua orbita personale; la sua visuale e i suoi poteri non oltrepassano i limiti dell’impiego, della famiglia, del vicinato; in ambienti diversi dal proprio si muove male, rimane spettatore.

Mills osserva che, quando abbiamo problemi o seccature, intuiamo che fuori c’è un mondo storico-sociale che ci condiziona, ma non ce ne occupiamo più di tanto. Ci rendiamo conto di quanto questo incida sulla nostra vita solo quando grandi cambiamenti ce la stravolgono. È quel che sta accadendo col coronavirus: improvvisamente scopriamo che là fuori c’è un enorme scenario in evoluzione in cui siamo immersi e che ci condiziona, da cui dipendiamo.

Altri due sociologi, Collins e Makowsky, dicono che capita all’uomo come al pesce, “che pare non si accorga dell’acqua fino a quando non lo tirano fuori”. 

Eppure sarebbe utile comprendere le dinamiche sociali. Per riuscirci dobbiamo uscire dal nostro angolo di visuale, essere distaccati, pensare complesso, non semplificare, ed essere attenti anche all'invisibile, a ciò che che c'è ma immediatamente sfugge.

Tendiamo a fare così in tutto. Ci fissiamo su qualcosa che ci sembra essenziale e facciamo fatica ad allargare lo sguardo, immaginare altri modi di guardare la realtà e vedere quel che non vediamo, che spesso è quel che conta. Ad esempio, pensiamo di avere un problema, senza accorgerci che forse il nostro problema è un altro.

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Immaginazione - Giugno 2020
luglio 2020

Che ne sarà degli Stati democratici e di welfare?

by Parisio Di Giovanni

La pandemia del COVID-19 è forse una seria minaccia per gli Stati democratici e di welfare. Abbiamo buoni motivi per pensarlo. Come mai? 

Gli Stati moderni sono già in crisi da tempo.  C’è ormai una copiosa letteratura in merito, tanto che l’argomento è un luogo comune nelle scienze sociali: possiamo trovare discorsi sulla crisi dello Stato moderno anche consultando un’enciclopedia. Le cause sono varie, in parte riconducibili alla globalizzazione, in parte alle vicende della democrazia e del Welfare State (che qui chiamiamo anche Stato sociale o assistenziale, sebbene alcuni usino i termini in senso in parte diverso). La pandemia aggrava, esaspera, questi fattori di crisi e introduce elementi nuovi, inaspettati, paradossali e affascinanti, che fanno somigliare l’acuirsi della crisi a un suicidio, o forse meglio a un karakiri.

Benessere contro benessere

Il Welfare State vuole essere uno Stato-provvidenza, che si fa carico dell’istruzione di massa, dei servizi sanitari e sociali, della lotta alla disoccupazione e alla povertà, della tutela delle fasce deboli e più in generale si impegna a favorire il benessere della gente. Abitualmente i diversi obiettivi da raggiungere per il benessere della popolazione sono in armonia tra loro: se crescono istruzione e salute, l’economia può andare meglio, col che povertà e disoccupazione diminuiscono e ne possono trarre giovamento a loro volta istruzione e salute.

La pandemia del COVID-19 rompe questa armonia. Farsi carico della salute cercando di contenere i contagi implica mettere in crisi l’economia e provocare disoccupazione e povertà. Obiettivi in conflitto tra loro ci sono anche all’interno dei servizi socio-sanitari, dato che più ci si concentra sulla lotta alla pandemia più si compromette l’assistenza per le comuni malattie e per i problemi psicologici e sociali. Gli Stati di welfare sono così alle prese con una sfida inedita, quella di riuscire a garantire aspetti del benessere in aperto conflitto tra loro. Rischiano perciò di fallire come Stati-provvidenza e deludere le aspettative dei cittadini.

Ma siamo diventati un po' Giriama

Che il Welfare State non riesca a garantire il benessere in una situazione come quella creata dal COVID-19 può essere accettato serenamente se ammettiamo che stiamo facendo i conti con un limite umano. In passato epidemie, carestie, guerre periodicamente falciavano le popolazioni e la cosa, seppure sofferta, era vista in ultima analisi come parte dell’esistenza. Senonché per la gente di oggi è davvero difficile accettare i limiti umani. Grazie allo sviluppo economico, alle migliori condizioni igieniche, i progressi della medicina, la globalizzazione e lo stesso Welfare State, le condizioni di vita sono decisamente migliorate e quei flagelli del passato sono divenuti inimmaginabili per noi.

Siamo andati oltre. Si è rafforzata l’idea che nella vita gli eventi negativi siano eccezioni. Siamo portati a pensare che la normalità è fatta di salute fisica, benessere, riuscita, giustizia e malattie, disagi, fallimenti, ingiustizie sono deviazioni occasionali. Si tratta di una tendenza della nostra mente a distorcere la realtà, un bias, noto come tendenza alla positività o effetto Pollyanna, dal nome della protagonista di una famosa storia per ragazzi di Eleanor Porter, che riusciva a vedere lati positivi in tutto (Matlin e Stang, 1978; Lewicka, 1985; Matlin, 2012).

La tendenza alla positività è universale, c’è sempre stata e la ritroviamo in tutti i popoli della Terra. Oggi però è molto accentuata. Alla sua accentuazione, oltre alle migliorate condizioni di vita e al Welfare State, hanno concorso i mass media, che in genere raccontano incidenti, catastrofi, morti per malattie o altri eventi negativi con tono di stupore o denuncia come se fossero cose che non dovrebbero accadere. Più o meno consapevolmente, si è insinuata in noi l’idea che gli eventi negativi non siano naturali, ma dovuti a difetti della società, che non è stata capace di evitarli. Soffriamo di un inconfessato senso di onnipotenza. Adele Bianchi in un saggio del 2007 scrive che “siamo diventati un po’ Giriama”.

Quando muore una persona cara o conosciuta di regola per noi il sentimento dominante è la tristezza, magari mista a rassegnazione. Invece tra i Giriama, popolo del Kenya, ai funerali tradizionalmente si prova utsungu, un’emozione che ha una componente di tristezza, ma è essenzialmente rabbia (Parkin, 1984). Noi tendiamo a provare tristezza e rassegnazione perché vediamo nel lutto una perdita importante e pensiamo che morire sia naturale. Diversamente da noi, i Giriama credono che la morte non sia naturale, ma provocata da una stregoneria: vivremmo in eterno se qualcuno a un certo punto non ci stroncasse con una stregoneria. Se ci riflettiamo, nella misura in cui perdiamo la consapevolezza dei limiti umani e sempre più attribuiamo le disgrazie all’incapacità di proteggerci del sistema sociale, stiamo ragionando come Giriama. Del resto oggi ci capita di provare rabbia ai funerali, se ad esempio pensiamo che a causare la morte è stata la malasanità.

Come tutte le nostre distorsioni cognitive, la tendenza alla positività è ambivalente. È utile perché ci fa affrontare con fiducia la vita e problematizzare avversità, ma d’altro canto ci rende fragili, poco consapevoli della realtà e ci spinge a consolarci trovando capri espiatori per spiegarci le cose che non vanno. Nella vicenda del coronavirus, per cittadini con accentuata tendenza alla positività il Welfare State è il capro espiatorio più ovvio, specie perché le promesse fatte e l’enfasi nel candidarsi come Stato-provvidenza sfociano ora nella delusione.

Una delusione che c'era già

In realtà la delusione serpeggiava tra i cittadini prima che arrivasse la pandemia. Questa la slatentizza e l’aggrava, accelera un processo già in atto di perdita di credibilità e legittimità del Welfare State.

Lo Stato assistenziale ha sempre avuto, fin dall’inizio, un atteggiamento ambivalente nei confronti dei cittadini: è con loro e contro di loro, cura i loro interessi e intanto fa i propri interessi a scapito di quelli dei cittadini, mette questi al centro e al tempo stesso li tratta come sottomessi.

I sociologi hanno analizzato le due facce del Welfare State: ora questo è stato ritratto come Stato-provvidenza vicino ai cittadini, ora come un sistema di affari e di potere sopra le teste dei cittadini. I funzionalisti, in linea con la loro concezione positiva e ottimistica della società, hanno descritto il Welfare State all’incirca come si presenta e si autolegittima: una forma di organizzazione politico-sociale necessaria per tutelare le fasce deboli della società e garantire così la sopravvivenza dell’intero sistema sociale. Nascerebbe come risposta alle richieste della base popolare. Secondo il sociologo inglese Thomas Humphrey Marshall (1963), non funzionalista, ma incline a una visione pacifica delle trasformazioni sociali, i grandi partiti a base popolare, entrati in scena con la democratizzazione, hanno dato voce agli interessi delle fasce deboli e hanno indotto lo Stato a farsene carico.

I teorici del conflitto, inclini a guardare ai lati negativi della società e critici, hanno ritratto l’altra faccia del Welfare State e hanno attribuito le sue origini a motivazioni meno nobili: nascerebbe per legittimare il fatto che l’apparato statale si dilata e la pressione fiscale aumenta. C’è chi ha evidenziato che con la crescita dell’apparato statale sono aumentate le risorse economiche gestite dallo Stato. È come se lo Stato si fosse trasformato in una grande impresa capitalistica di servizi. Altri esponenti delle teorie del conflitto hanno insistito sul fatto che lo Stato sociale è un sistema di potere. Ad esempio, Habermas, della scuola di Francoforte, osserva che lo Stato assistenziale è un dispensatore di status forti e sicuri intorno al quale molti lottano per accaparrarsi privilegi. Qualcuno ha messo in evidenza che il sistema statale di affari e potere è anche caratterizzato dall’interazione tra vertici formali e élite economico-sociali che portano avanti i propri interessi dietro le quinte. La corruzione sarebbe nella natura stessa dello Stato assistenziale e la lotta alla corruzione sarebbe in parte dovuta alla competizione tra i poteri (il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario), in parte al tentativo di rafforzare l’immagine pura ed etica del Welfare State.

In qualche misura i cittadini nella loro esperienza, pur dal loro ristretto angolo di visuale, intuiscono la doppiezza del Welfare State evidenziata nella tradizione sociologica. Vedono che si adopera per assicurare loro il benessere. Contemporaneamente però si accorgono che agisce contro di loro: li pressa con le tassazioni, il carico burocratico, l’impegno o l’uso della violenza legittima – così la chiamava Max Weber – tutte le volte che li mette dalla parte del torto a priori, come accade, ad esempio, con l’inversione dell’onere della prova in casi in cui interesse del cittadino e dello Stato sono in contrasto.

Il cittadino a volte percepisce di essere in posizione di inferiorità anche nell’assistenza finalizzata al suo benessere, se ad esempio avverte che i servizi sono gestiti paternalisticamente dall’alto e che non ha voce in capitolo o scopre che non gli viene dato il meglio, ma grosso modo il meglio che può avere vista la distribuzione delle risorse disponibili nella popolazione. Può intravvedere anche che nel sistema di welfare sono in gioco interessi economici e di potere, da cui la gente comune è tagliata fuori.

Sotto gli occhi di tutti sono i giochi di potere, con gli incarichi e le lotte per averli. Altri aspetti meno appariscenti del sistema di potere ai più sfuggono, sebbene ci sia chi li coglie. C’è anche chi si rende conto del sistema di affari. Ad esempio, prendiamo la domanda: come mai lo Stato gestisce direttamente sanità, istruzione e altri servizi pubblici? Molti vanno dietro alla legittimazione corrente, che lo Stato ne è garante. C’è però anche chi resta perplesso e magari si chiede come possa lo Stato essere al tempo stesso il controllore e il controllato. Ragionando così smette di idealizzare lo Stato, di consideralo un’entità divina, lo vede incarnato. Allora arriva a pensare che, se molti servizi fossero affidati a privati e lo Stato li pagasse e ne controllasse la qualità, sarebbe meglio. Ecco che si fa strada il sospetto che l’accentramento statale abbia altre motivazioni. Pochi arrivano a cogliere le radici strutturali della corruzione, ma comunque la sua persistenza fa nascere qualche dubbio e incrina la credibilità dell’apparato statale.

Per chi, nell’esperienza disastrosa della pandemia, preda dell’effetto Pollyanna, va alla ricerca di attribuzioni consolatorie, il Welfare State è il capro espiatorio perfetto. Non è in grado di salvarci, non mantiene le sue promesse e oltretutto non è così buono come dice di essere e mostra una sgradita doppiezza, è falso.

Disparità tra pubblica amministrazione e imprenditoria privata

La pandemia del COVID-19 accentua il divario tra pubblica amministrazione e imprenditoria privata e rischia di fomentare conflitti tra le due realtà. Anche qui abbiamo a che fare con un problema già esistente che la vicenda attuale slatentizza e acuisce.

Nel corso della seconda metà del XX secolo, con l’avvento del welfare, gli apparati statali sono cresciuti in tutti i Paesi avanzati. Gli stati hanno investito nelle pubbliche amministrazioni quote maggiori del PIL e hanno impiegato più personale. Negli ultimi decenni l’espansione degli apparati statali si è stabilizzata o ridimensionata. Comunque i lavoratori pubblici rappresentano mediamente circa il 25% della forza lavoro di un paese (con oscillazioni dal 30% circa nei Paesi scandinavi a circa il 15% per Paesi come l’Italia). In Italia nel 1951 erano circa 1 milione, nel 2001 circa 3 milioni e 600 mila e nel 2017 circa 3 milioni e mezzo.

Mentre l’apparato statale cresceva, c’è stata una contrazione dei servizi. Non è diminuito il numero dei servizi erogati, anzi si sono moltiplicati, tanto che i consumi pubblici sono diventati tra il 20% e il 30% dei totali (pubblici e privati). È peggiorata però la qualità dei servizi statali. I cittadini hanno cominciato a sperimentare strade mal tenute, trasporti disagevoli, difficoltà di accesso alla sanità, disservizi burocratico-amministrativi e altri malfunzionamenti dell’apparato.

A peggiorare la qualità dei servizi ha contribuito in modo significativo il fatto che gli Stati si sono trovati con risorse economiche carenti rispetto all’espansione. C’è chi ha sostenuto che bisognava ridimensionare i servizi, promessi in eccesso dai politici pur di guadagnare il consenso (Brittan, 1975; Nordhaus, 1975). Altri invece hanno pensato a un aumento di tassazione, possibile se lo Stato conquistava maggiore credibilità presso i cittadini (Habermas, 1973; Offe, 1984). Di fatto entrambe le vie sono state seguite, seppure con differenze a seconda dei Paesi.

I servizi però sono peggiorati non solo per ragioni economiche, ma anche perché l’apparato statale ha continuato ad operare col suo approccio tradizionale senza adeguarsi ai cambiamenti sociali. Ad esempio, i funzionari si sono attenuti all’ethos burocratico, la morale del funzionario che cura gli interessi dello Stato in modo impersonale e ligio alle norme. Questa impostazione, alle origini dello Stato moderno, mirava proprio a favorire la qualità del lavoro di dipendenti che guadagnavano a prescindere dai risultati. Tuttavia, specie nel mondo attuale, una visione impersonale del lavoro dettato da norme non favorisce lo sforzo di migliorare, ma porta i funzionari a ritenersi soddisfatti se hanno fatto quel che dovevano fare. Molti risultati però si ottengono se i funzionari si sentono personalmente impegnati a far bene, magari anche barcamenandosi con le regole, che a volte sono barriere da superare, più che supporti per arrivare al risultato.

Imprenditori e lavoratori del settore privato avvertono la scarsa qualità dei servizi pubblici, anche perché spesso sono alle prese con disservizi che li mettono in difficoltà, a cominciare dagli amministrativo-burocratici. Hanno stereotipi e pregiudizi riguardo ai dipendenti pubblici, che, come in genere accade, sono in parte fondati. Tuttavia poi non si rendono magari conto che le cause vanno cercate non nelle persone (nei funzionari o gli impiegati o altri lavoratori del pubblico), ma nel sistema. I lavoratori privati tendono anche ad avvertire una disuguaglianza che li penalizza. Il lavoro dei dipendenti pubblici appare più sicuro, dato che a sorreggerlo è il potere statale ed è garantito, mentre quello privato è incerto, per la mobilità e la precarietà delle stesse imprese e delle loro politiche economiche.

La vicenda del COVID-19 rende meno tollerabili i difetti di qualità dell’apparato statale, dai disservizi amministrativo-burocratici ad altri che impattano sul lavoro privato. Esaspera anche la disparità tra pubblico e privato, dato che la crisi economica colpisce innanzitutto il settore privato.

Il diritto ancora più in crisi

La cultura dello Stato moderno è essenzialmente giuridica. Mentre gli Stati tradizionali si richiamavano alle tradizioni, alla morale alla religione, quelli moderni si basano sul diritto, sia per legittimarsi, sia per disciplinare il proprio operato e quello dei cittadini. A partire dalla metà del XX secolo però il diritto ha mostrato seri limiti.

Uno dei motivi più spesso ricordati è che il diritto, essendo punitivo, finisce per essere un sapere statico, mentre per stare al passo con le rapide trasformazioni delle società attuali il sapere cui si ispira lo Stato dovrebbe essere più elastico e dinamico. Ad esempio, la legge può stabilire che la residenza va dichiarata e il luogo di residenza è quello dove si vive per almeno un certo tempo l’anno. Le persone che dichiarano di risiedere in un luogo e di fatto passano la maggior parte del tempo in giro per il mondo non sono in regola con la legge e sono passibili di sanzioni. Punire riafferma la legge, ma continuando così non si prende atto di un cambiamento: nelle società attuali per alcune fasce della popolazione la mobilità geografica è arrivata al punto che il tradizionale concetto di residenza non ha più senso. Addirittura abbiamo numeri impressionanti di lavoratori globali (manager essenzialmente), che passano gran parte del tempo in spostamenti internazionali, alberghi e aeroporti. I legislatori possono impegnarsi a rincorrere i cambiamenti, ma resta il fatto che il diritto per sua natura è un sapere conservatore inadatto a un mondo che cambia.

Il diritto è in affanno anche di fronte alla complessità. Quando, ad esempio, ci sono attività sociali o amministrativo-finanziarie che vanno gestite regolandosi di volta in volta a seconda della situazione, con intelligenza è saggezza, il diritto è in difficoltà. Anche qui si è cercato di affrontare il problema, ma questo ha portato a una proliferazione normativa e a una frammentazione, in genere fonte di confusione e controversie. Capiamo come mai c’è chi nota che a volte si è costretti a scegliere “tra fare cose efficaci e non legali e fare cose legali e non efficaci” (Théret, 1995).

Ovviamente il problema del diritto alle prese con i cambiamenti e la complessità è meno sentito nei Paesi di common law, dove la razionalità è fonte del diritto per cui si può decidere caso per caso, tenendo conto delle situazioni. Purtroppo, contrariamente a quanto alcuni illusoriamente ancora credono, i sistemi formali, di diritto romano-germanico, nel mondo di oggi non danno più garanzie, al contrario rendono più macchinosa e incerta la giustizia.

La vicenda del coronavirus mette a dura prova un diritto incapace di star dietro ai cambiamenti e di operare nella complessità e ne svela i limiti. Disciplinare i comportamenti nella pandemia è tutt’altro che semplice e le normative prodotte appaiono, anche al comune cittadino, confusionarie e inadeguate. Si fa strada l’impressione che, più che emanare norme, sarebbe utile mettere la popolazione in condizione di capire come conviene comportarsi e perché, andando a fondo, tanto da ridurre la distanza tra esperti e non esperti. Bisognerebbe accrescere la padronanza delle persone alle prese con l’emergenza. Detto diversamente: meno norme e più empowerment, meno potere su e più potere con.

Risulta evidente anche la staticità del diritto. La situazione è di incertezza e in continua evoluzione. Si susseguono norme, ma comunque appaiono in ritardo e proprio nel loro susseguirsi mostrano l’inadeguatezza del diritto. La staticità ostacola anche azioni volte a migliorare la situazione o a introdurre iniziative imprenditoriali innovative tese a contrastare la crisi economica. Può accadere che chi in un momento così difficile affronta la sfida si trovi a scontrarsi con l’ottusità (ad esempio, l’obbligo di avere permessi, neppure rilevanti e che arrivano in tempi lunghi) di un diritto che resta ancorato a un contesto inattuale, senza cogliere che occorrono celerità e elasticità. Avverte allora il dilemma di Théret: “fare cose efficaci e non legali” o “fare cose legali e non efficaci”

Consideriamo un’altra ragione per cui da tempo il diritto degli Stati moderni è in crisi: il riemergere del diritto naturale. Secondo il diritto naturale, dominante nelle società statali tradizionali, esistono principi che gli uomini devono rispettare per natura e le leggi sono giuste nella misura in cui si ispirano a questi principi. In età moderna, già a partire dal De cive di Hobbes del 1642, si afferma il diritto positivo, secondo il quale le leggi sono giuste in quanto a emanarle è lo Stato. Il diritto positivo cerca di svincolare il diritto dalla morale corrente, dalle tradizione e dalla religione, per farne un’attività tecnica, se non addirittura una disciplina scientifica. Gli Stati moderni lo sposano, perché così inteso il diritto è più adatto a fare da cultura su cui fondare il loro monopolio del potere e della politica.

Tuttavia negli ultimi tempi i principi di giustizia hanno acquistato sempre più importanza. È apparso chiaro che accanto a leggi giuste ci sono leggi ingiuste: oggi il diritto naturale mette in discussione il positivo. Pensiamo alla difesa dei diritti umani, che talvolta induce associazioni o organismi internazionali a mobilitarsi contro leggi statali che li violano.

Senza scomodare casi che fanno clamore, nella vita di ogni giorno il cittadino, se solo ne è vittima o fa certe esperienze e si ferma a riflettere, intuisce che spesso le leggi hanno risvolti ingiusti. Ad esempio, l’articolo 1335 del nostro codice civile dice che eri a conoscenza del contenuto di un atto pervenuto al tuo indirizzo, a meno che non provi di essere stato, senza tua colpa, nell’impossibilità di averne notizia. Il codice favorisce l’altra parte e non tiene conto di fatti della vita reale. Un racconto può aiutarci a capire come mai il cittadino può sentirsi a disagio.  “Mi è capitato di vedere il postino mettere nella mia cassetta un avviso indirizzato a un altro. Gli ho fatto notare la cosa e forse l’avviso è arrivato al destinatario. Conoscendo il codice, mi sono chiesto: come dimostrare in casi del genere di non aver avuto notizia dell’atto?” In ogni caso incolpare qualcuno solo su basi presuntive appare comunque un’ingiustizia. Il legislatore si è barcamenato tra esigenze in contrasto, ma l’ingiustizia resta.

La vicenda del coronavirus in un certo senso smaschera il diritto positivo e ne mette a nudo la confusione tra giustizia e gestione statale. L’imprenditore che fallisce per le norme di chiusura, il lavoratore che perde il lavoro, è in difficoltà o cade in povertà facilmente avverte che forse quella non è giustizia anche se è volontà del Welfare State, che ha i suoi motivi, pure comprensibili.

Torniamo all’articolo 1335 del codice civile. Persone rimaste bloccate altrove dal lockdown, rientrate a casa, hanno trovato avvisi di giacenza di raccomandate restituite al mittente. Se sotto c’è un problema serio, dovranno farsi carico di dimostrare che, senza colpa, erano nell’impossibilità di averne notizia? Ecco che l’ingiusto si appalesa.

In Italia ha fatto scalpore il caso dei ristoratori riunitisi, nel pieno rispetto delle regole di sicurezza e pacificamente, per dare un segnale della grave crisi in cui versavano e che sono stati multati. I poliziotti hanno considerato la loro una manifestazione e hanno applicato la norma che le vietava e non consentiva discrezionalità, ma gli stessi poliziotti hanno avvertito l’ingiustizia di agire secondo la “giustizia” di uno Stato di diritto positivo.

La crisi della sovranità

Oggi è in forse il monopolio della politica e del potere degli Stati moderni. Il monopolio è minacciato dall’interno (dagli enti locali, movimenti, associazioni, ecc.) e dall’esterno (da altri Stati e altri soggetti dello scenario globale). Nella vicenda del coronavirus la crisi di sovranità si tocca con mano.

Se guardiamo a quel che accade in Italia, notiamo le divergenze tra governo centrale e enti locali o associazioni e come questo indebolisca la sovranità statale. La debolezza traspare anche nel travagliato rapporto che il nostro paese ha con l’Unione Europea, che del resto da tempo ha ridimensionato la sovranità degli Stati membri.

Una deriva autoritaria o totalitaria?

Le varie forme di stato moderno (liberale, autoritaria, totalitaria, democratica) si legittimano in nome del popolo. La democrazia si caratterizza perché è il popolo a conferire il potere a chi governa e viene chiamato più o meno spesso a fare, ratificare o rivedere scelte importanti attraverso referendum. Nelle altre forme invece i governanti agiscono per il bene del popolo o, meglio per ciò che ritengono il bene del popolo, ma il popolo non li sceglie, né viene interpellato.

Una storiografia un po’ leggera ha spiegato gli autoritarismi e i terribili totalitarismi del Novecento come disavventure dovute a circostanze particolari, a certi personaggi o certe ideologie. Oggi è chiaro che, anche se questi fatti possono avere influito, autoritarismi e totalitarismi sono nati in quanto lo Stato moderno ha per la sua stessa struttura il rischio di derive autoritarie e totalitarie. Alla radice del rischio c’è proprio il fatto che lo Stato fa appello al popolo e sostiene di agire nell’interesse di questo.

Autoritarismi e totalitarismi del Novecento hanno ripreso il paternalismo degli Stati liberali dell’Ottocento e l’anno estremizzato, fino a concepire il governo come un tutore del popolo. Sono partiti dal presupposto che il popolo non è in grado di decifrare la realtà, orientarsi e gestire le proprie faccende. I governanti analizzano i bisogni reali del popolo, di cui la gente non è consapevole, si impegnano in azioni educative di massa e, che il popolo sia convinto o meno, fanno quello che per il suo bene va fatto. Gli Stati autoritari sono pragmatici, badano a raggiungere obiettivi pratici ritenuti utili per il popolo, senza porsi il problema di cambiare più di tanto cultura e società. Lo scopo principale dei totalitari invece, come messo in evidenza da Hannah Arendt, è cambiare la realtà umana adeguandola a modelli ideali, teorizzati in ideologie totali, concezioni che pretendono di dire tutto sull’uomo e di essere salvifiche.

Rendersi conto che alla radice dei totalitarismi e autoritarismi c’è il prendersi cura del popolo ci aiuta a essere più consapevoli e accorti, più attenti a evitare possibili derive. Il Welfare State si fa carico del bene del popolo, cosa da un lato positiva, dall’altro preoccupante. Lo fa in un contesto di cultura democratica e questo sicuramente contrasta il rischio di derive autoritarie o totalitarie. Nella misura in cui però la partecipazione del popolo alla gestione è scarsa, i governanti prendono decisioni in cui la gente può non identificarsi o trovare risvolti contrari al proprio bene. Una deriva, seppure modesta e sfumata, negli Stati di welfare c’è. Teniamo presente, che come aveva chiarito già Locke nel teorizzarla, un problema della democrazia moderna è che a rigore dovrebbe basarsi sul trust, su un patto di fiducia tra governanti e governati, che va mantenuto nel tempo e non si esaurisce nella elezione dei rappresentanti. L’impressione che il proprio bene come lo vede il cittadino e come lo vede il governante non sempre coincidono è diffusamente presente nell’esperienza di vivere in uno Stato di welfare.

Ma che succede in una grave emergenza come quella della pandemia da coronavirus? I governi si trovano a prendere in tempi brevi decisioni che hanno un forte impatto sulla vita dei cittadini. Oltre che urgenti, le decisioni sono complesse e riguardano qualcosa di inedito. Perciò nei governanti è forte la tentazione di pensare che la gente non sia in grado di orientarsi e gestire le proprie faccende, per cui va guidata dall’alto. Questo però, pure se comprensibile, è il presupposto dei regimi autoritari e totalitari. 

Le decisioni da prendere poi sono incerte e anche conflittuali e selettive: portano al tempo stesso benefici e danni, distribuiti in modo disomogeneo nella popolazione. Molti perciò finiscono per non condividere questa o quella scelta e non ravvisarvi il proprio bene, specie in culture individualistiche. I governi si trovano così a imporre dall’alto la propria visione del bene del popolo.

Interessante in tutto questo è il ruolo della scienza. I governanti si consultano con esperti e spesso giustificano le loro scelte appellandosi alla scienza. Senonché in questo modo si può scivolare nello scientismo, cioè nella tendenza a sopravvalutare la scienza e a estenderla erroneamente ad ambiti in cui non può darci risposte. La scienza è limitata, in quanto parziale, non in grado di dirci tutto, fatta di verità precarie, destinate a essere smentite con l’avanzare delle ricerche, e di concetti, schemi, modelli, teorie che, come dice Einstein, sono semplicemente “utili a mettere ordine nelle cose”. È anche un’attività intellettuale umana condizionata dai ricercatori, le istituzioni e i finanziatori. Come dice bene Einstein, ha “origini terrestri”. Perciò, specie in una situazione senza precedenti, come quella del COVID-19, può darci suggerimenti utili, ma limitati e incerti, sia in campo sanitario che economico e psicosociale.

Gli esperti poi non rappresentano la scienza: esprimono pareri che andrebbero verificati e che a volte è difficile verificare, magari perché nella stessa ricerca ci sono risultati non conclusivi o contrastanti o interpretazioni diverse. Così abbiamo un paese dove le scuole primarie si riaprono perché un consulente del governo ritiene che i bambini non veicolino il virus. Altri esperti però sono in disaccordo e le famiglie vanno in crisi.

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C’è un fatto forse ancora più importante. Le decisioni da prendere di fronte alla minaccia della pandemia non sono semplicemente tecniche, ma riguardano anche la vita. Entra in gioco perciò l’etica, ambito in cui la scienza non ha voce in capitolo. Pensare che la scienza possa dirci che cosa è giusto fare è un grave errore, che Hume chiama fallacia del naturalismo. Come aveva colto Max Weber, le scienze ci danno un quadro che ci aiuta a decifrare la realtà, ma poi le decisioni vanno prese da chi si trova a prenderle, con saggezza e coscienza. Ecco che lo scientismo rischia di portare a qualcosa di simile alle ideologie totali, con la loro pretesa di essere salvifiche.

Se consideriamo che la posta in gioco è alta (parliamo di vite umane, sofferenze, povertà, cambiamenti a vari livelli, dai risvolti incerti e che presumibilmente ci porteremo dietro nel tempo), i governi dovrebbero trovare il modo di dialogare con i cittadini e muoversi il più possibile di concerto. Senza quel trust che aveva in mente Locke, il rischio di una deriva è serio. C’è però un problema: gli Stati di welfare fino ad ora hanno avuto, alcuni più altri meno, un atteggiamento paternalistico e si sono impegnati di fatto poco a coinvolgere i cittadini e a dialogare con loro. Cambiare nel breve periodo è davvero arduo.

Parisio Di Giovanni e Sabrina Liberotti illustrano lo scientismo e parlano del rischio di scivolarci in un momento critico come quello

della pandemia del COVID-19

Che dire?

I moderni Stati democratici e di welfare già da tempo soffrivano di una crisi che in qualche modo hanno controllato. Ora sono sotto una minaccia inedita, che li indebolisce in vari aspetti, oltretutto intrecciati tra loro. Da osservare anche che, pur con differenze, tutti gli Stati democratici e di welfare sono nella stessa condizione.

A voler immaginare, possiamo ipotizzare che il fenomeno sia transitorio. Sembra probabile però che, anche qualora dovesse essere transitorio, resterà traccia dell’indebolimento statale e che avremo Stati democratici e di welfare diversi da prima, forse più dispotici o al contrario più attenti a coinvolgere i cittadini. Possiamo escludere cambiamenti radicali? Sarebbe azzardato: forse molto dipende da quanto la vicenda si protrarrà e da come evolverà.

Parisio Di Giovanni

RIFERIMENTI

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Matlin, M. W., & Stang, D. J. (1978) The Pollyanna principle. Selectivity in language, memory, and thought. Cambridge, MA: Schenkman

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