top of page

Quanto è stupido questo mondo

Adele Bianchi in un block notes, dove conservava username, password e altro, aveva scritto: "Quanto è stupido il nostro mondo: governi, leggi, giornalismo, magistratura e tante altre assurdità dei tempi nostri" .

marzo 2021
Ancora 1

Il mistero tecnico-scientifico nella gestione della pandemia

by Parisio Di Giovanni

mistero 1.jpg

Dietro le misure un background sconosciuto

Per gestire la pandemia, non disponendo di altri mezzi, bisogna fare affidamento su NPI (Nonpharmaceutical Interventions), azioni grazie alle quali le persone tengono comportamenti che riducono il rischio di contagio. Molti paesi, tra cui l’Italia, hanno seguito la strategia del decreto, adottando un approccio normativo-repressivo: stabilire norme che vietano o limitano certi comportamenti e sanzioni per chi non le rispetta. È un approccio problematico, perché è più difficile di quello che si può credere disciplinare le esperienze di vita in modo da ottenere un controllo efficace dell’epidemia. Una ragione è che le dinamiche della diffusione del virus sono complesse, mentre le norme semplificano la realtà. L’ideale sarebbe che le persone conoscessero il funzionamento del contagio e le possibili strategie comportamentali e caso per caso si comportassero nel modo più intelligente a seconda della situazione e degli obiettivi da raggiungere. È un modo di procedere però che non va d’accordo con la strategia del decreto, in cui dall’alto si impongono regole di comportamento rigide, che non lasciano spazio a flessibilità e autonomia.

Non c’è da meravigliarsi se ci troviamo di fronte a norme dettagliate, minuziose, che variano a seconda del luogo e del tempo. Ad esempio, ci sono attività che chiudono a un’ora precisa, spostamenti possibili solo per determinate motivazioni, c’è un blocco stretto nel periodo di Pasqua con una data di inizio e di fine oppure c’è un lasso temporale in cui le zone gialle diventano arancioni e un altro in cui sono tutte rosse. Si direbbero tentativi di inseguire la complessità.

Ma su che cosa si basano queste regole? Quale retroterra di conoscenze e ragionamenti hanno a loro sostegno? Spesso i cittadini se lo chiedono e a volte provano a sollevare la questione. La risposta che in genere viene data a questi interrogativi è che dietro le norme ci sono indicazioni di un team di esperti, di un comitato tecnico-scientifico.

A questo punto nasce però l’esigenza di far chiarezza sulle indicazioni del comitato tecnico-scientifico. Senonché l’operato del comitato resta nell’ombra. Quando se ne parla, abitualmente è per legittimare le scelte appellandosi a questo operato, non per illustralo. Così il background tecnico-scientifico delle misure adottate finisce per essere sconosciuto ai cittadini.

Cinque punti da chiarire

Schematicamente sono cinque le domande cui rispondere per portare alla luce il background delle norme stabilite.

1) Quali sono le indicazioni? Dovremmo conoscere esattamente le indicazioni fornite dal comitato, sapere che cosa ha consigliato e in quali termini.

2) Su quali conoscenze si basano? L’insieme delle conoscenze che mettiamo in gioco è determinante. Ad esempio, nell’analisi della mortalità legata alla pandemia possiamo considerare solo le morti di COVID-19 oppure anche le morti indirette, quelle che il virus causa senza infettare e far ammalare le persone, ma perché è nella società e noi reagiamo e cerchiamo di combatterlo. Sappiamo che le morti indirette sono molte: nei paesi avanzati, come il nostro, oscillano tra il 20% e il 40% e verosimilmente sono di più nei paesi a basso reddito. Se trascuriamo le morti indirette e ci basiamo solo sulle dirette, operiamo scelte non ponderate. In teoria possiamo mettere in campo azioni che, pur riducendo le morti dirette, aumentano le indirette e al limite il risultato è controproducente: nel complesso finiamo per avere più morti. Tra l’altro, più si allarga il raggio delle conoscenze in gioco, come si guarda alla complessità dei fenomeni, c’è bisogno di conoscenze ulteriori. Ad esempio, una volta inquadrato il problema delle morti indirette, per ponderare le scelte abbiamo bisogno di informazioni precise su queste morti: quante e quali sono, quali meccanismi le provocano, se e come le misure adottate le influenzano.

3) Qual è il fondamento di queste conoscenze? Ogni affermazione va valutata criticamente. Non basta che la fonte sia autorevole e neppure che a sostegno ci siano ricerche pubblicate. Dobbiamo vedere come si è arrivati a quelle conclusioni, interrogarci sulla metodologia seguita, fare una stima di affidabilità e nel caso apportare correzioni. Ad esempio, i dati sui morti di COVID-19 che circolano e vengono adoperati per fare confronti sono poco affidabili. In genere non sono interpretati correttamente ponderandoli in ragione di una serie di fattori che influiscono sui decessi. Fatto ancora più grave, variano i criteri adoperati per stabilire quando una morte è da COVID-19. È per ovviare a questo limite dei dati sui morti di COVID-19 che i ricercatori hanno pensato di andare a studiare le morti in eccesso rispetto agli anni precedenti e hanno scoperto la gravità del fenomeno delle morti indirette.

Le difficoltà metodologiche sono maggiori quando si cerca di stabilire un nesso causale, ad esempio tra l’applicazione di una misura e l’andamento dei contagi o tra la somministrazione di un vaccino e la comparsa di manifestazioni patologiche o decessi. Il fatto che due eventi siano significativamente correlati, cioè che tendono a essere associati, a volte è difficile da dimostrare. Non dice poi che uno è causa dell’altro. Possono esserci altri fattori che causano l’uno e l’altro, né possiamo escludere che l’evento che consideriamo causa sia in realtà l’effetto. Il metodo che ci consente di individuare con sufficiente certezza nessi di causa-effetto è l’esperimento, ma non possiamo servircene per rispondere a molti quesiti sulla pandemia. Finiamo così per limitarci a prendere in considerazione semplici correlazioni e a supporre nessi causali basandoci su assunti teorici o, quando possibile, sui risultati di indagini più approfondite, in cui si fanno confronti, si esaminano altri fattori in gioco o si raccolgono informazioni che confermano le supposizioni teoriche.

4) Quali ragionamenti hanno portato dalle conoscenze alle indicazioni? Per arrivare a dare indicazioni sulla base di conoscenze prese in esame il comitato tecnico-scientifico si è servito di ragionamenti. Sono corretti? Il quesito è lecito perché i nostri ragionamenti abitualmente sono soggetti a errori e questo vale per tutti noi, poco importa se siamo degli esperti o persone comuni.

Gli errori di ragionamento sono radicalmente umani, dovuti al funzionamento della nostra mente, che ha dei limiti ed è più adatta a cavarsela nella vita sociale che a decifrare obiettivamente la realtà. È qualcosa che ormai conosciamo bene. Per non commettere errori quando non possiamo permettercelo l’unica via è sapere dove la nostra mente sbaglia e gestirla. Ad esempio, al momento di soppesare morti dirette e indirette può fuorviarci il fatto che siamo impegnati nella lotta alla pandemia. L’effetto framing, studiato da Tversky e Kahneman, ci spinge a dare più peso ai rischi che corriamo in un ambito in cui stiamo investendo. Così per noi le morti di COVID-19 contano di più. A questo può concorrere anche il fatto che sono salienti, più in vista. D’altra parte possono crearsi anche situazioni in cui entrano in gioco meccanismi che falsano le valutazioni in senso contrario. Dobbiamo conoscere queste tendenze distorsive della nostra mente per non cadere in errore.

Il comitato tecnico-scientifico poi è esposto al rischio di sbagliare più dei suoi membri presi individualmente.  Sappiamo che i gruppi hanno più difficoltà a ragionare correttamente e tendono a commettere errori. Conosciamo bene le dinamiche alla base del fenomeno e la ricerca ha analizzato casi storici di grossolani errori commessi da gruppi di persone altamente competenti, come nell’invasione della Baia dei Porci, a Pearl Harbor o nella tragedia del Challenger.

5) Come dalle indicazioni si è arrivati alle norme? Il passaggio è delicato, perché a ben guardare richiede un salto logico e perché anche qui è facile commettere errori di ragionamento. Diversamente da quanto si sente dire, non esistono decisioni scientifiche. Il senso comune tende a mitizzare la scienza, a non rendersi conto che, sebbene sia una risorsa fondamentale, ha i suoi limiti. La scienza ci fornisce conoscenze parziali, incerte, precarie, per quanto sicuramente più robuste e utili di quelle che possiamo elaborare senza servirci della ricerca scientifica. Soprattutto la scienza non ha voce in capitolo nelle nostre decisioni. Può fornirci, per dirla con Einstein, concetti utili a mettere ordine nelle cose del mondo, ma poi le decisioni sta a noi prenderle, perché riguardano la nostra vita. Quando ci illudiamo che la scienza possa dirci che cosa fare cadiamo in un errore che il filosofo del Settecento Hume ha chiamato “fallacia del naturalismo”. Le conoscenze scientifiche – osserva Hume -  non dicono nulla su ciò che è giusto o ingiusto, descrivono semplicemente le cose come di fatto sono.

Prendiamo il caso del vaccino AstraZeneca. Morti intervenute dopo la somministrazione hanno gettato un allarme. Dalle prime analisi scientifiche è emerso che il tasso di decessi con quel quadro patologico era lo stesso tra i vaccinati e non vaccinati. Il dato può rassicurare, ma non prova con certezza che la causa di quelle morti non è la vaccinazione. Per rendercene conto ci basta riflettere sul fatto che i casi sono pochi, per cui questi confronti statistici non possono dirci se tra le due popolazioni c’è una differenza significativa. Del resto si tratta di indagini correlazionali, mentre per stabilire nessi causa-effetto occorrono esperimenti. Ricerche successive hanno suggerito possibili meccanismi attraverso i quali il vaccino avrebbe causato le morti, col che il nesso causale appare verosimile, sebbene ancora non del tutto provato. Sono evidenti l’incertezza e la precarietà delle conoscenze scientifiche.

Ancora più serio è il fatto che dobbiamo fare i conti con la fallacia del naturalismo di Hume. A rendere impegnativa la decisione se andare avanti o meno con questo vaccino, oltre che la scarsa certezza di una conoscenza scientifica in evoluzione, c’è il problema che la scienza non può dirci che cosa fare. Ci lascia col dubbio che certi eventi avversi in rari casi possano verificarsi. A questo punto si tratta di stabilire se il rischio che verosimilmente pochi vaccinati corrono è ripagato o meno dai benefici derivanti dall’utilizzo del vaccino in questione. Se guardiamo all’interesse individuale, forse siamo portati a pensare che il rischio va evitato, ma, se pensiamo all’interesse collettivo, possiamo ritenerlo giustificato. Appare chiaro che la decisione non può essere scientifica. Come precisa Max Weber, uno dei maestri delle origini della sociologia, la scienza ci aiuta a decifrare la realtà, ma poi le decisioni vanno prese da chi deve prenderle con coscienza e saggezza. Ma come ragiona chi prende le decisioni? Come arriva dalle conoscenze che la scienza fornisce alle scelte che riguardano la vita?

Schermata 2020-04-20 alle 19.17.56.png

Un video sullo scientismo, la tendenza a mitizzare la scienza, ad attribuirle capacità che, nonostante sia una risorsa fondamentale, non ha e pensare che possa decidere per noi.

Un autoritarismo comprensibile

L’atteggiamento dei paesi che hanno adoperato la strategia del decreto, pure se democratici, almeno nella gestione della pandemia è di fatto autoritario. Il governo impone con fermezza ai cittadini certi comportamenti, che limitano anche loro abituali e fondamentali libertà. Lo fa, come in genere accade nei regimi autoritari, paternalisticamente: mira al bene del popolo e gli impone le proprie decisioni in quanto non lo ritiene all’altezza e intende evitare intralci, potenzialmente problematici, specie in una grave emergenza.

L’esercizio paternalistico dell’autorità è tenuto in parte nascosto, occultato. Il governo fa appello alla scienza, legittima le proprie scelte chiamando in causa il parere degli esperti. Ricorre poi al segreto, non svela il retroscena dei pareri e il background di conoscenze e ragionamenti su cui le scelte si basano. Tratta questo background come patrimonio di alcuni, non accessibile a tutti. Nella misura in cui i cittadini accettano le regole del gioco, l’autoritarismo resta invisibile o quasi.

Appello a conoscenze superiori e ricorso al segreto sono tecniche abitualmente adoperate nelle professioni, almeno quando svolte secondo il tradizionale modello paternalistico. Ad esempio, i medici spesso tendono a decidere per conto dei pazienti in base a un sapere che giudicano patrimonio esclusivo dei professionisti della sanità e i pazienti si affidano. A ben guardare, vista anche la natura del problema, non meraviglia che nell’emergenza della pandemia molti governi abbiano trasferito in politica il tradizionale modello paternalistico della medicina.

Che sotto la minaccia della pandemia, anche in paesi democratici, persino in alcune democrazie di lunga data, sia emerso l’autoritarismo è comprensibile. Per evitare una gestione autoritaria i governanti avrebbero dovuto fidarsi dei cittadini, credere che fossero in grado di capire, in grado di decifrare la situazione e regolarsi in vista degli obiettivi da raggiungere. I governi avrebbero dovuto anche organizzare e curare la comunicazione in modo da favorire il discernimento, il confronto costruttivo e la cooperazione. Il tutto in tempi brevi e col serio problema che per raggiungere gli obiettivi bisognava avere una collaborazione di massa. I governanti si sono trovati di fronte a una sfida ardua, non fosse altro perché un fallimento avrebbe potuto portare a risultati disastrosi. Imporre regole dall’alto è apparso più semplice e sicuro.

C’è da dire anche che la minaccia è particolarmente grave in quanto mette in discussione la medicina e il Welfare State. Con la pandemia divengono evidenti i limiti della medicina. Questa è perdente anche nella lotta a varie malattie, come il cancro o le cardiovascolari, ma tendiamo a dare per scontate certe sconfitte e a pensare che la medicina sia comunque potente. Alle prese col COVID-19 invece la medicina svela una certa impotenza. La malattia è nuova, improvvisamente si aggiunge alle altre cui siamo abituati, gli sforzi di combatterla mettono in crisi l’assistenza sanitaria e sconvolgono le nostre vite, come se una medicina incapace chiedesse a noi di sacrificarci per fronteggiare il male.

Viene da pensare alla “nemesi medica” di Ivan Illich, che in questo momento può sembrare una profezia. La tracotanza della medicina, con la sua presunzione di eliminare il male dalla vita, viene punita e siamo costretti a prendere atto dei nostri limiti umani. Insieme alla medicina è in discussione il Welfare State, che si legittima con l’impegno a garantire benessere e salute dei cittadini. È in discussione anche perché con la pandemia l’impegno per il benessere è contradditorio: se lo Stato lotta contro il virus causa danni all’economia, povertà, disuguaglianze, disagi e compromette anche l’assistenza per altre malattie. La minaccia al Welfare State è preoccupante, perché il potere statale di fatto è da tempo in crisi e ha bisogno di rafforzarsi mostrando in modo sempre più palese di assicurare ai cittadini servizi, assistenza e benessere.

Rendere noto il retroterra di conoscenze e ragionamenti alla base delle regole imposte probabilmente è stato scoraggiato dall’idea che la gente per lo più non è in grado di comprendere correttamente certe informazioni tecniche e può avere difficoltà ad accettare il fatto, normale in scienza, che in molti casi mancano certezze. Per la gente può essere difficile anche fare il passo di accettare i limiti della medicina e del welfare e prendere atto della fragilità umana. Il problema è serio anche perché nei paesi avanzati, ove più ove meno, siamo indietro nello sviluppo di importanti life skills, abilità utili per la vita, come l’approccio scientifico o la saggezza, e nell’alfabetizzazione sanitaria, nonostante la cosa sia auspicata da tempo. C’è da dire anche che, una volta scelta la via autoritaria, svelare il retroterra di conoscenze e ragionamenti, romperebbe il segreto e renderebbe più evidente l’impostazione autoritaria. Vorrebbe dire non avere più una copertura che aiuta a salvaguardare in qualche modo il rapporto con i cittadini nel mentre i governi agiscono in maniera autoritaria.

Ma rinunciatario e svantaggioso

Se da un lato è comprensibile, dall’altro l’atteggiamento autoritario della gestione della pandemia ha sotto un difetto di coraggio svantaggioso, che è fonte di problemi e lascia perplessi. È un approccio che fa prevalere il potere su, power over, e riduce il potere con, power with.

Il potere su è la forma di potere cui solitamente pensiamo quando usiamo il termine “potere” e che Max Weber, alle origini della sociologia, definisce “qualsiasi possibilità di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte a un’opposizione, la propria volontà, quale che sia la base di questa possibilità”. Caratterizza i rapporti di dominio, in cui una parte (ad esempio, lo Stato) si impone e l’altra (ad esempio, i cittadini) cede e si sottomette.

Il potere con invece è tipico dei rapporti di cooperazione, in cui non c’è una parte che prevale sull’altra, ma insieme si agisce per ottenere risultati che avvantaggiano tutti. Hannah Arendt, politologa nota per i suoi studi sul totalitarismo, parla della “capacità umana di agire di concerto”. Un errore di senso comune, commesso anche nella tradizione filosofica e delle scienze sociali, è pensare che nei rapporti di cooperazione non entri in gioco il potere. In realtà il potere c’è sempre, solo che viene esercitato per affrontare i problemi comuni e migliorare la vita di tutti, non per piegare l’altro alla propria volontà, per cui non c’è chi vince e chi perde, ma vincono tutti. Pensiamo alla gestione della pandemia: se agiamo di concerto a tutti i livelli ognuno si avvale del potere inteso come “capacità di realizzare effetti desiderati”, per dirla con Bertrand Russel.

Adottando un approccio autoritario, con la strategia del decreto, i governi non hanno avuto il coraggio di credere nei cittadini e cercare di coinvolgerli in un’impresa comune. Questo difetto di coraggio non è innocuo. Una prima conseguenza negativa è che la società è divenuta meno giusta e umana e, poco o tanto, il cambiamento è stato percepito, incrinando diffusamente benessere e sicurezza sociale. In effetti le società sono più giuste e umane nella misura in cui in esse c’è più potere con e meno potere su, vale a dire che l’equilibrio dominio–cooperazione è a favore di quest’ultima.

In sociologia i teorici del conflitto, a cominciare da Marx e Weber, hanno immaginato un mondo più giusto senza potere. È perché pensavano che l’unica forma di potere fosse il potere su e non avevano chiaro che senza potere non c’è libertà, si è nell’impotenza. La società è viva, dinamica, in evoluzione grazie al potere, che consente di incidere sulla realtà. Bertrand Russel dice che nelle scienze umane il potere è “come l’energia nelle scienze fisiche”. Evidentemente per costruire una società più giusta e umana, per combattere disuguaglianze e oppressione, la via non è eliminare il potere, ma dare sempre più spazio al potere con rispetto al potere su, ai rapporti cooperativi piuttosto che di dominio. Con la pandemia, dove l’approccio è autoritario, si è precipitati in una condizione in cui il potere su ha guadagnato spazio e il potere con lo ha perso.

Decreti e autoritarismo hanno segnato anche una preoccupante battuta d’arresto, se non un regresso. A fatica stavamo avanzando lungo il cammino dell’empowerment, dello sforzo di rendere cittadini, professionisti, comunità, organizzazioni e istituzioni più dotate di “padronanza sulle loro faccende”, per dirla con Julian Rappaport, psicologo di comunità che ha contribuito agli studi sull’empowerment sviluppatisi a partire dalla seconda metà del Novecento. Se i soggetti di una società sono capaci di sbrigare le proprie faccende, c’è più autonomia, meno dipendenza, cresce il potere con rispetto al potere su e la vita è più giusta e umana. Non ci avvantaggiamo però solo sul piano etico. La società diviene anche più performante, in grado di ottenere risultati migliori.

Prendiamo ad esempio la medicina. L’empowerment dei pazienti porta con sé una sanità migliore, se non altro perché favorisce la cooperazione tra operatori e utenti e di conseguenza migliora la prevenzione, le cure e la costruzione della salute. Teniamo presente che, specie nelle patologie croniche, il successo dipende in buona parte dal paziente. D’altra parte per una sanità di qualità è essenziale l’empowerment dei professionisti, alle prese oggi con problemi non semplici, come quello di documentarsi accedendo costantemente a una letteratura scientifica in continua evoluzione o il problema di gestire i propri ragionamenti clinici tenendo conto dei nostri errori umani o di dialogare con pazienti bene o male informati e magari meno propensi ad affidarsi ciecamente. C’è bisogno di cooperazione anche per migliorare i sistemi sanitari e la loro organizzazione, cosa che per varie ragioni si riesce sempre meno a fare dall’alto.

Oggi disponiamo di una mole consistente di ricerche da cui emerge l’importanza dell’empowerment in sanità come in altri ambiti. Sembra proprio un peccato che la pandemia non ci faccia avanzare in questo lavoro di miglioramento. Con più coraggio forse avremmo potuto fare un salto in avanti e la pandemia sarebbe stata un’opportunità di crescita, non solo un motivo di crisi. È utopia? Può darsi, ma è certo che i paesi che hanno adottato un approccio autoritario pagano lo scotto di una crisi di civiltà.

C’è un dato che emerge da studi scientifici condotti fino ad ora e che, seppure ancora fondato su prove preliminari, è interessante: i paesi che hanno adottato un approccio autoritario non sembra abbiano ottenuto risultati migliori nella gestione della pandemia. Il caso della Cina è stato portato come esempio per sostenere che i regimi autoritari sono avvantaggiati. Una revisione attenta però spinge a reinterpretare il caso cinese. Inoltre abbiamo casi opposti, come quello del Giappone, in cui atteggiamenti cooperativi senza misure obbligatorie hanno prodotto risultati straordinari. Del resto indagini condotte su vari paesi utilizzando appositi indicatori smentiscono il mito dell’autoritarismo.

I paesi che, anziché la strategia del decreto, hanno adoperato la cosiddetta strategia del mandato, che mette insieme ordini dall’alto e coinvolgimento di comunità e base, o della promozione (boost), che mira a responsabilizzare e a rendere competente la popolazione, o anche quella morbida del pungolo, della spinta (nudge), hanno avuto un controllo della pandemia paragonabile o migliore, a volte significativamente migliore. Nasce il dubbio che le perdite superino i guadagni e che poteva essere preferibile giocare la partita puntando sulla cooperazione e facendo della pandemia un’opportunità per progredire in civiltà.

Parisio Di Giovanni

bottom of page