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Quanto è stupido questo mondo

Adele Bianchi in un block notes, dove conservava username, password e altro, aveva scritto: "Quanto è stupido il nostro mondo: governi, leggi, giornalismo, magistratura e tante altre assurdità dei tempi nostri" .

aprile 2021
Ancora 1

Una gestione della pandemia controproducente?

by Parisio Di Giovanni

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Verosimilmente le misure restrittive di contenimento della pandemia, che molti paesi, tra i quali l’Italia, hanno adottato, fanno più male che bene alla salute pubblica. Alla luce delle esperienze fatte e degli studi a riguardo, abbiamo buoni motivi per pensarlo. Se le cose stanno davvero così, siamo alle prese con un cambio di prospettiva sconvolgente: fin qui la gestione della pandemia è stata controproducente, non possiamo continuare così, dobbiamo trovare alternative e cambiare rotta.

In un articolo dal titolo eloquente, COVID-19: Rethinking the Lockdown Groupthink, pubblicato a fine febbraio 2021 su Frontiers in Public Health, Ari Joffe, professore della divisione di terapia intensiva dell’Università dell’Alberta in Canada, fa il punto sulla questione (1). Parte dal suo personale ripensamento. “Sono stato un forte sostenitore dei blocchi quando è stata dichiarata per la prima volta la pandemia [cita un articolo di marzo 2020]. In questa rassegna narrativa degli studi spiego perché ho cambiato idea”.

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Rethinking the Lockdown Groupthink

di Ari Joffe

Calcolare costi e benefici per la salute pubblica

Grazie ai lockdown, la riduzione di mobilità e contatti sociali, la chiusura di attività e scuole, il confinamento in casa e altre misure di implementazione di comportamenti, NPI (Nonpharmaceutical interventions), otteniamo un contenimento della pandemia e di conseguenza una diminuzione di casi e decessi da COVID-19. Gli studi non sempre concordano nelle valutazioni di efficacia delle misure, anche perché i risultati variano a seconda delle metodologie adoperate (2, 3). Nel complesso però indicano che c’è efficacia, specie se vengono combinati più NPI (4, 5).

La diminuzione di casi e morti di COVID-19 è indiscutibilmente un importante beneficio per la salute pubblica. A questo si aggiunge il fatto che si evita o si riduce il sovraccarico del sistema sanitario, a rischio di crisi per i molti casi di COVID-19, cosa che a sua volta può avere ripercussioni sulla salute pubblica. Tuttavia non possiamo guardare solo ai benefici delle nostre azioni e trascurare i costi che hanno.  È essenziale chiedersi se le misure restrittive adottate, accanto ai positivi, hanno effetti negativi sulla salute pubblica.

Sappiamo ormai che ci sono seri danni alla salute pubblica, documentati da una corposa letteratura scientifica. In un primo tempo si è pensato che i costi fossero essenzialmente economici e che si trattasse di scegliere tra vite umane ed economia. È vero che, come è stato osservato, la dicotomia è ingenua, perché le perdite economiche si pagano anche in vite. Tuttavia all’inizio non si immaginava il quadro drammatico dei danni alla salute pubblica indipendenti dalle perdite economiche che le ricerche successive hanno messo in evidenza.  

Andando avanti è apparso sempre più chiaro che le misure restrittive causano morti indirette, non dovute al COVID-19, ma a interruzioni o disfunzioni dei servizi sanitari, a ridotto acceso ai servizi, aumento di malattie fatali o suicidi (6). È emerso che c’è una maggiore incidenza di malattie fisiche e mentali e una significativa riduzione della speranza di vita, oltre a disuguaglianze e disagi psicologici e sociali che compromettono qualità della vita e benessere (6).Una volta chiarito che le misure causano danni alla salute delle persone, si impone un calcolo costi-benefici. Dobbiamo stimare l’entità del danno alla salute pubblica fatto con le azioni di contenimento della pandemia e confrontarla con l’entità del danno evitato grazie a quelle azioni.

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Il libro fa una sintesi della ricerca scientifica che si è accumulata e che evidenzia vari danni alla salute pubblica, di cui c'è scarsa consapevolezza.

Stime sconvolgenti

Per stimare costi e benefici di interventi di salute pubblica possiamo basarci sugli anni di vita persi o guadagnati dalla popolazione. Così facendo però consideriamo soltanto la sopravvivenza e trascuriamo la qualità della vita: per la salute pubblica un conto è avere una popolazione che vive 1 anno in più o in meno in buone condizioni, altro è stando male. Il Quality Adjusted Life Years (QALY) tiene conto anche della qualità della vita e aggiusta gli anni di sopravvivenza in ragione di questa (7). Altro indicatore è il Wellbeing Years (WELLBY), che pondera gli anni di vita anche in ragione della soddisfazione che le persone provano, misurata con appositi questionari metrici (8). Nonostante i limiti che hanno, come notano David Miles e colleghi (9), questi indicatori consentono di orientarsi evitando di prendere serie decisioni politiche nel vuoto.

Le stime fatte con questi indicatori in alcuni paesi avanzati suggeriscono che i costi per la salute pubblica delle misure rigorose superano significativamente i benefici. Secondo le più pessimistiche sono da 5 a 10 volte superiori (1, 9, 10, 11). Presumibilmente nei paesi a più basso reddito l’impatto negativo delle misure sulla salute pubblica è ancora maggiore e il rapporto costi-benefici dovrebbe essere ancora più sbilanciato verso i costi.

Possiamo intuire come mai le cose stiano così, se solo riflettiamo sul fatto che le misure danneggiano in molti modi la salute pubblica, mentre il COVID-19, seppure contagioso, ha una mortalità bassa che colpisce essenzialmente gli anziani. Spesso si commette l’errore di valutare il rischio di morte da COVID-19 in base al case fatality rate (CFR), cioè al tasso di decessi sul numero di casi accertati. Senonché ci sono molti casi di persone che hanno contratto il virus, ma la malattia non è diagnosticata. Per avere indicazioni affidabili dobbiamo basarci sull’infection fatality rate (IFR), il tasso di decessi sul numero di persone infettate dal virus, che però è difficile da valutare per il problema di individuare gli infetti non riconosciuti.  Indagini su campioni di popolazione in cui i soggetti infettati sono stati individuati mediante esami sierologici indicano che l’IFR si attesta intorno allo 0,23%, circa un caso di morte ogni 500 persone contagiate (12). Verosimilmente l’IFR è ancora più basso, perché al reclutamento dei campioni aderiscono preferenzialmente persone in buona salute, gli esami sierologici non sempre evidenziano la presenza del virus e i decessi dichiarati da COVID-19 a volte sono da altre cause, nel senso che la malattia virale c’è ma non è la causa principale della morte.

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Un video realizzato all'inizio della pandemia, in cui Parisio Di Giovanni e Raffaele Mascella, professore di logica, mettono in evidenza comuni errori che ci portano a sovrastimare la probabilità di morire di COVID-19.

Fatto importante, per la stragrande maggioranza i decessi sono in persone di età avanzata. Anche ammettendo che l’IFR nel complesso si attesti intorno allo 0,23%, nei non anziani è intorno allo 0,05%, un caso di morte ogni 2.000 contagiati. Dobbiamo tener presente poi che per morire di COVID-19 dobbiamo prima infettarci. Devono accadere due eventi: che siamo contagiati e che moriamo. Perciò dobbiamo calcolare una probabilità composta, data dal prodotto delle probabilità che ciascun evento ha di verificarsi. Quando andiamo a moltiplicare le due probabilità, il valore scende. Ad esempio, se l’IFR è 0,05% e il rischio di infezione è 1%, il rischio di morte sarà dello 0,0005%, 1 su 200.000. John Ioannidis (12) nota che per le persone sotto i 65 anni il rischio è paragonabile a quello di viaggiare in macchina percorrendo da qualche decina a qualche centinaia di chilometri al giorno a seconda del territorio. Oltre i 65-70 anni il rischio aumenta. L’IFR varia dall’1% in su, in ragione dell’età e delle comorbidità.

Il punto qui è che, se guardiamo alla popolazione e badiamo agli anni di vita persi, più che al numero di vite perse, i danni alla salute pubblica causati dal COVID-19 si ridimensionano, specie se utilizziamo indicatori quali il QALY o il WELLBY. Quegli anziani che muoiono infatti avevano davanti pochi anni di speranza di vita e in loro qualità della vita e benessere potevano essere compromessi da altre malattie.

Calcoli simili facilmente suscitano in noi perplessità e reazioni morali. Ricordiamo però che stiamo ragionando sulla salute pubblica, non individuale, e che la vita di tutti noi ha dei limiti. Può aiutarci guardare all’altra faccia della medaglia. Le misure rigorose fanno vittime di tutte le età, compresi i bambini e gli adolescenti, e minacciano le vite delle persone nel lungo periodo, oltre che nell’immediato.

Le stime dei costi e dei benefici vanno prese con cautela, perché come tutte le stime sono soggette ad approssimazioni e possono variare a seconda dei criteri e dei modelli adottati. Sono comunque preoccupanti. Capiamo come mai in alcuni paesi, come il Canada o l’Australia, esperti e persone impegnate nella sanità pubblica hanno firmato petizioni ai governi, che chiedevano di rivalutare le strategie di gestione della pandemia puntando a un maggiore equilibrio.

Un grande esperimento naturalistico

C’è un altro aspetto da considerare, per certi versi inquietante. Non sappiamo fino in fondo quali effetti produrranno i cambiamenti sociali introdotti con le misure adottate. Stiamo facendo un esperimento naturalistico di vaste dimensioni. Nella metodologia della ricerca sociale si parla di esperienti naturalistici per indicare quei casi in cui non è, come di regola avviene, lo sperimentatore a intervenire sulla realtà, ma gli avvenimenti producono certi cambiamenti e possiamo vedere quali conseguenze questi hanno. Ad esempio, casi di bambini che hanno vissuto l’infanzia in isolamento hanno fornito sostegno all’ipotesi che il rapporto con gli altri nei primi anni di vita ha un ruolo decisivo nello sviluppo del linguaggio.

Le misure di gestione della pandemia introducono nelle nostre vite cambiamenti che nessun ricercatore avrebbe mai osato sperimentare per ragioni etiche. Sulla base di conoscenze che abbiamo possiamo avanzare ipotesi sui possibili effetti. Indagini condotte durante la pandemia ce ne documentano alcuni. Tuttavia molti effetti li scopriremo nel tempo.

Tanto per fare qualche esempio, che cosa accadrà delle motivazioni delle persone nelle attività della vita o dello sviluppo di abilità mentali e sociali o delle relazioni amorose o della cura della propria salute? E le statistiche delle malattie e delle cause di morte cambieranno? E i matrimoni, le nascite, le morti, le migrazioni e in genere i fenomeni demografici? Che cosa accadrà degli Stati, dei rapporti che hanno con i cittadini, con altri Stati e altri soggetti della scena mondiale? Potremmo andare avanti, ma forse è già chiaro che si tratta di fatti che influiscono sulla salute e che dovremo stare a vedere.

Come spiegare un errore simile?

A prima vista sembra incredibile che i governi di molti paesi abbiano adottato misure di gestione della pandemia che rischiano di fare più male che bene alla salute pubblica. Lo sconcerto cresce se pensiamo che oltretutto questi governi perseverano e chiedono alla gente di sacrificarsi per portare avanti azioni che possono rivelarsi dannose. La maggioranza dei cittadini poi pur soffrendo si allinea e si rassegna. Ecco che si insinua il dubbio: non è che a sbagliare sono quegli studiosi che stimano danni alla salute superiori ai benefici?

In realtà non ci sarebbe da meravigliarsi più di tanto se governi avessero adottato misure sbagliate, che possono portare a risultati controproducenti per la salute dei cittadini. Diversi fattori concorrono a spiegare un'azzardata gestione della pandemia in molti paesi del mondo. Le spiegazioni sono sempre multifattoriali, basate su un intreccio di cause. Le spiegazioni che riconducono tutto a una causa, sono in genere semplificazioni errate. Vediamo alcuni fattori in gioco (non tutti).

1) Un panico mal gestito. L’arrivo della pandemia ha suscitato intensa paura, preoccupazione e turbamento. Siamo stati colti di sorpresa, a tutti i livelli, dai cittadini comuni ai responsabili istituzionali, ai governanti, anche se da anni c’era chi avvertiva riguardo al rischio che un virus ad alta contagiosità si diffondesse nel mondo. C’è stata un’enfasi mediatica sui morti di COVID-19, con informazioni superficiali e fuorvianti. Ad esempio, abitualmente i numeri dei decessi erano e sono riportati senza una interpretazione critica dei dati, senza i denominatori (almeno quanti su quanti abitanti), senza ponderazioni (per età, densità demografica, ecc.) e decontestualizzati, non inquadrati nel complesso delle morti da altre cause. Per dirne un’altra, l’insistenza su storie tragiche e impressionanti ha distolto dalle valutazioni statistiche, non facili da comprendere specie per la gente comune, ma utili nelle valutazioni dei pericoli.

Di per sé la paura, anche se forte, non è dannosa in una emergenza. Occorre però gestirla bene e farne una spinta ad affrontare al meglio i problemi. È qui che le cose sono andate male. Ci si è precipitati a tentare di fermare la pandemia senza interrogarsi più di tanto, senza allargare lo sguardo, pensare al futuro e inquadrare meglio la sfida che avevamo davanti. Verosimilmente decisivo è stato il difetto di senso di vulnerabilità, che ha portato a non riconoscere i limiti della sanità, a non considerare realisticamente l’evento naturale minaccioso e a non riflettere freddamente prima di agire.

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Parisio Di Giovanni e Alessandra Martelli illustrano gli effetti della paura.

2) Un framework inadatto. David Miles e colleghi (9) osservano che noi stiamo trattando le decisioni sulla gestione della pandemia allo stesso modo di quelle della cura di malattie come il cancro, le cardiopatie, la demenza o il diabete. A dire il vero anche quando si cura una comune malattia costi e benefici delle terapie vanno valutati e, a rigore, bisognerebbe anche discuterne con i pazienti. Tuttavia certe valutazioni sono più semplici, se non altro perché ogni volta abbiamo a che fare con un solo paziente e conosciamo abbastanza bene efficacia ed effetti collaterali delle cure. Nella gestione della pandemia invece ci occupiamo della salute della popolazione, gli effetti delle nostre azioni variano da una persona all’altra e sono assai complessi e poco noti.

Oltre che agire nella cornice abituale della cura delle malattia, non sembra adeguato neppure stare nella cornice del trattamento delle malattie acute. In questa cornice cerchiamo di eradicare il male. Con le malattie croniche invece l’obiettivo è una convivenza accettabile col male. Nel caso della pandemia ci siamo fatti prendere dall’ansia di liberarcene, come fosse una malattia acuta, senza riflettere abbastanza sulla fattibilità della cosa, sugli effetti indesiderati dei nostri sforzi e su possibili alternative.

Peraltro è un errore che in medicina si commette anche nella cura di malattie come il cancro, a testimonianza che è umano. Non disponiamo di armi per eliminare un cancro metastatico: la ricerca biologica, la preclinica, da tempo lo ha messo in chiaro, spiegandoci i perché. Eppure la ricerca e la pratica clinica si ostinano ad aggredire i cancri metastatici con risultati deludenti in termini di sopravvivenza e qualità della vita, nonostante da decenni studiosi auspicano di orientare diversamente la ricerca. Judah Folkman e Raghu Kalluri da anni hanno introdotto il motto cancer without disease, per dire che l’obiettivo della cura è star bene pur avendo ancora il cancro in corpo (13). Robert Gatenby, del Moffitt Cancer Center, raffigura la strategia da seguire nella cura del cancro con l’immagine della potatura: l’albero non va abbattuto, ma potato sistematicamente (14). Di fronte alla pandemia abbiamo tenuto in scarsa considerazione l’idea di una gestione equilibrata e protratta nel tempo, col risultato di illuderci di liberarcene in fretta e di fatto trascinarcela rischiando gravi conseguenze per la salute pubblica.

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L'immagine della potatura di Robert Gatenby

Considerare il cancro una malattia cronica può essere vincente

3) Esperti non esperti. Come nota Ari Joffe nel suo articolo (1), gli esperti di medicina e sanità pubblica ai quali i governi si sono rivolti in genere non si intendono di complessi calcoli costi-benefici come quelli richiesti per una buona gestione della pandemia. Fanno fatica anche a entrare in ragionamenti etici, logici, filosofici, di scienze sociali. Ci vorrebbe maggiore interdisciplinarità. Non c’è da meravigliarsi del fatto che serva anche la filosofia. Basta pensare che adottare un approccio o l’altro (un framework da malattia acuta o cronica, di cura medica o di politica sanitaria basata su un calcolo costi-benefici) non è una scelta meramente tecnica, ma di filosofia della cura e della costruzione della salute.

A volte gli esperti non sono veri scienziati o veri studiosi. Sanno magari molto delle loro discipline, ma non hanno l’autenticità, il desiderio di rottura, l’apertura mentale, la creatività che caratterizzano il buon ricercatore (15). Sono preoccupati della bella figura, della fama o della carriera, più che di avanzare nella conoscenza, anche a costo di sfidare la società, la politica e la stessa tradizione scientifica. Sono poco disposti a mettere in discussione le proprie tesi, prendendo sul serio le obiezioni da qualunque parte arrivino. Difettano dell’inventiva e del coraggio per vedere altri problemi e pensare scenari nuovi e originali, cosa necessaria per gestire la pandemia in atto. Veri scienziati e veri studiosi ci sono. Tuttavia proprio il fatto che gli altri dominino la scena della politica e dei mass media li spinge a farsi da parte ed evitare di esporsi. Del resto ciò che amano è la conoscenza.

4) Consenso e verità. Tra i vari governi ha preso piede l’abitudine a fare confronti, a imitarsi e a competere su chi implementava prima e meglio gli interventi che tutti tendevano a fare. C’è stato così un conformismo, che si è accompagnato alla tendenza al groupthink, a privilegiare lo sforzo di essere d’accordo su quello di decifrare la realtà, confondendo il consenso con la verità. Il consenso però, come già Platone chiarisce bene nel Lachete, non ha nulla a che vedere con la verità: possiamo essere tutti d’accordo su convinzioni completamente errate. L’operato di paesi che hanno seguito strategie più intelligenti, come il Giappone o la Svezia, è stato indebitamente attaccato o ignorato.

5) Il dilemma sanitario individuo-comunità. Le persone solitamente si aspettano dal servizio sanitario il massimo che la medicina può offrire. Invece un buon sevizio sanitario offre il meglio che si può ottenere vista la distribuzione nella comunità delle risorse disponibili. Si tratta di un equivoco diffuso, in cui interpretiamo la sanità secondo una visione egoistica, mentre questa ha finalità collettive.

L’equivoco è comprensibile e umano. Se c’è da scegliere a chi dare l’ultimo posto di terapia intensiva, se a una persona cara affetta da COVID-19 oppure a un’altra persona più giovane e con più speranze di cavarsela, sono portato a preferire che vada a chi mi sta a cuore. Analogamente, se penso che allentando le misure può morire di COVID-19 un mio famigliare anziano e con problemi di salute, la strategia mi appare disumana, anche se mi dicono che così moriranno persone più giovani e in buona salute, per tardato accesso alle cure o per altre cause delle morti indirette. Nell’ottica dell’assistenza sanitaria e della salute pubblica però è vantaggioso dare priorità a quelle altre persone, pur facendo ogni sforzo per ottimizzare. La sanità deve barcamenarsi tra etica ed economia e trovare un equilibrio razionale.

Le difficoltà del dilemma individuo-comunità, tra etica ed economia, possono aver contribuito a errori strategici che sembra facciano più danni che benefici alla salute pubblica. La pandemia ha sfidato servizi sanitari impreparati, cosa che ha reso più marcato del solito il dilemma. In risposta governi e istituzioni hanno cercato di andare incontro alla infondata aspettativa egoistica della gente, non avendo il coraggio di chiarire l’equivoco e presentare la sanità per quello che è: una istituzione che deve tener conto delle risorse disponibili e distribuirle nella comunità. Paradossalmente il prezzo della scelta viene pagato dai cittadini, per i quali sarebbe stato più conveniente prendere atto del dilemma individuo-comunità e della natura dei servizi sanitari, cosa che tra l’altro è anche un passo avanti nella capacità di vivere nelle nostre società consapevolmente.

6) La difesa del Welfare State. Gli Stati democratici e di welfare con l’arrivo della pandemia si sono trovati sotto minaccia, esposti al serio rischio di una crisi di legittimità (16). Già da tempo i moderni Stati democratici e di welfare sono in crisi per varie ragioni, tra cui la globalizzazione. La pandemia ha improvvisamente aggravato la crisi, mettendo in discussione la loro legittimità. Il Welfare State giustifica la pressione sui cittadini (tassazione, carico burocratico, ingiustizie, ecc.), la propria inefficienza, come pure gli affari e il potere che gestisce, presentandosi come Stato-provvidenza che assicura il benessere e tutela tutti. Di fatto lo fa abbastanza e il patto Stato-cittadini regge. Con la pandemia però lo scambio non è più sostenibile come prima.

La sanità si mostra in fin dei conti impotente di fronte alla minaccia del virus. La maggior parte dei paesi non sono stati in grado di organizzare i sistemi sanitari in modo da fronteggiare adeguatamente la pandemia. Siccome c’è diffusa abitudine al benessere e nella comunicazione pubblica manca il coraggio di ammettere i limiti, emerge che non c’è poi tanta provvidenza. Così si finisce per orientarsi verso azioni che alimentano l’illusione di uscire dalla pandemia, che fanno apparire il problema transitorio e lasciano credere che la protezione statale è impeccabile. I danni indiretti, per lo più non immediati o comunque poco evidenti, passano in secondo piano. La priorità diventa difendere l’immagine del Welfare State e salvaguardarne la legittimità agli occhi dei cittadini.

7) La fede in una via di uscita: dai blocchi al vaccino. Il problema del panico non gestito bene, l’approccio medico da malattia acuta, la visione egoistica della sanità, la preoccupazione di difendere il Welfare State hanno contribuito a far sì che governi, altri attori sociali e cittadini si siano messi a cercare una via d’uscita dalla pandemia in cui credere, seppure di fatto incerta e magari illusoria. In un primo tempo si è guardato ai lockdown come fossero cure risolutive. Dopo le prime speranze, con la seconda ondata è arrivata la delusione, una delusione che non poteva non arrivare, posto che sappiamo benissimo che la pratica dei blocchi porta a un tipico andamento a ondate della curva epidemica. Le speranze sono state allora riposte sempre più nel vaccino e al momento si sta giocando quest’altra carta, con la convinzione più o meno chiara e diffusa che possa liberarci dalla pandemia.

8) L’accecamento ideologico. Che dobbiamo liberarci della pandemia trattandola come una malattia acuta da curare, che abbiamo a portata soluzioni, che i costi di queste soluzioni sono giustificati dai benefici, che non abbiamo alternative sono tutte idee che, messe insieme ad altre e organizzate, formano una ideologia dominante. Non è facile distinguere tra ideologie e concezioni non ideologiche. Tutti i prodotti intellettuali umani dietro una parvenza fatta di contenuti sensati hanno un retroscena dove troviamo i condizionamenti psicologici e storico-sociali che hanno influito sulla loro nascita e gli obiettivi a cui mirano e in ragione dei quali presentano distorsioni e forzature. Anche uno studio scientifico, ad esempio, è legato alle esigenze del contesto in cui viene portato avanti e poco o tanto è aggiustato in vista di finalità pratiche, come il successo del ricercatore o l’applicazione della scoperta. C’è sempre però un buon livello di autenticità, di ricerca della verità, di sforzo di comprendere la realtà e avanzare nella conoscenza. Nell’ideologia invece i condizionamenti prevalgono al punto che non c’è più autenticità (17).

Tipicamente le ideologie hanno come finalità il controllo e la mobilitazione sociale, tendono a imprimere un dato assetto alla società o a imporre certi cambiamenti e fare in modo che la gente si orienti di conseguenza. Siccome sono strumenti per raggiungere fini sociali ad ogni costo, sono impregnate di falsità: disattendono la ricerca della verità, forzano pensieri e ragionamenti, non ammettono vedute diverse e neppure le incertezze e i limiti della conoscenza, ostentando pretese di infallibilità.

Quando un’ideologia nasce in un contesto di minaccia e diviene dominante si verificano tipiche dinamiche del pensiero di gruppo, il goupthink, da tempo ben studiate nei piccoli gruppi (18). Per i sostenitori dell’ideologia essere tutti d’accordo è più importante dell’approfondire le conoscenze e cercare di capire come stanno realmente le cose. Siccome si privilegia il consenso ci si autocensura: se uno ha obiezioni o dubbi tace per non incrinare l’unanimità e sfidare gli altri. Si crea così la percezione infondata che non c’è chi nutre il minimo dubbio: è il bias del falso consenso. Ne segue una spirale del silenzio: se nessuno tira fuori perplessità, pensiamo che c’è un perfetto accordo generale, allora evitiamo ancora di più di manifestare dubbi o obiezioni, ci convinciamo sempre più di essere perfettamente d’accordo, evitiamo pensieri divergenti e stiamo zitti, e così via. Se in seno alla società ci sono altri di diverso parere, non in linea con l’ideologia, vengono messi a tacere e attaccati. Ignoriamo le loro obiezioni, facendo ragionamenti errati che ci consentono di restare della nostra idea. Squalificarli è un modo abituale per restare della nostra idea: pensiamo, ad esempio, che l’obiezione non conta perché viene da una persona ignorante o sciocca. Nel caso in cui ci si sente sotto minaccia e l’ideologia appare salvifica, le persone che non sono in linea con questa vengono additate come devianti, traditori che impediscono la salvezza. Se sono in minoranza, i dissenzienti spesso tacciono, col che l’ideologia dominante si rafforza. I mass media possono favorire le dinamiche del pensiero di gruppo, suggerendo che certe convinzioni sono indiscutibili e presentando i dissenzienti come appartenenti a una minoranza disinformata, di poco conto, se non indegna.

Nelle vicende della pandemia l’ideologia e le dinamiche del pensiero di gruppo sono evidenti. Per coglierle ci basta riflettere sulle comuni esperienze in un paese come l’Italia, che è tra quelli che hanno adottato misure rigide di gestione della pandemia. Ad esempio, non c’è apertura e confronto sulle conoscenze e le ragioni che sono alla base delle restrizioni, come sottolineato in un articolo pubblicato su questa rivista (19). La gente che solleva dubbi viene messa da parte. Se i dubbi riguardano azioni giudicate salvifiche, le persone che li sollevano vengono viste come traditori in una guerra che sta facendo tante vittime.

Da notare che durante la pandemia senso di minaccia, isolamento, solitudine accrescono il bisogno di sentirsi all’altezza della situazione, dotati di un sapere utile, coerente e valido. Favoriscono anche la sensibilità per i feedback negativi e l’aggressività, specie nei confronti di chi mette in discussione quelle convinzioni che ci fanno sentire sicuri.

Il fatto che l’approccio adottato sia divenuto parte di una ideologia resa potente dalle dinamiche del pensiero di gruppo probabilmente ha reso governanti, responsabili istituzionali e molti cittadini ciechi, incapaci di interrogarsi, mettersi in discussione, allargare lo sguardo, anche di fronte alle evidenze.

9) Istituzioni ingessate. Le istituzioni interessate, pur trovandosi di fronte a uno scenario completamente nuovo, hanno continuato ad agire come hanno sempre fatto, con gli stessi schemi, gli stessi modelli, le stesse procedure e prassi. Non c’è da meravigliarsi perché le istituzioni abitualmente non sono flessibili, ma tendono a perpetuare sé stesse.

Ad esempio, le istituzioni sanitarie si sono impegnate nello sforzo di erogare cure secondo le modalità tradizionali, concentrandosi in particolare sul COVD-19. Con la pandemia però avrebbero dovuto assumere funzioni diverse e riorganizzarsi. Per dirne una, bisognava curare comunicazione e rapporto con i cittadini in modo da creare una vicinanza e un dialogo costante, che favorissero le consultazioni, l’accesso ai servizi, le attività di prevenzione, di monitoraggio, di assistenza continua. Questa era la via per curare meglio il COVID-19 e contribuire a evitare danni alla salute pubblica da inadeguata assistenza per altre malattie. Per seguirla era necessario un cambio culturale non facile, passare dalla classica visione paternalistica in cui si agisce sui pazienti per combattere malattie ad una in cui si collabora con i cittadini per costruire insieme salute. Da anni si insiste sulla necessità di questo cambio di impostazione della sanità, ma non si è fatto molto e l’Italia è uno dei paesi rimasti più indietro. Per dirne un’altra, occorreva investire per rivedere l’organizzazione del sistema sanitario, dalla struttura ai processi operativi, alle dotazioni strumentali, anche informatiche. Bisognava rendersi conto che il sistema andava adattato al nuovo contesto.

10) Errori di ragionamento. Siamo tutti soggetti a errori di ragionamento, risentiamo di biases, tipiche distorsioni cognitive. Non importa chi siamo, se siamo degli esperti, dei professionisti, delle persone istruite o meno. Certi errori sono radicalmente umani e l’unico modo che abbiamo di evitarli è conoscerli e fare metacognizione, cioè riflettere sui nostri pensieri e correggerli. È qualcosa che oggi sappiamo bene, alla luce di vari decenni di ricerche. Come abbiamo messo in evidenza in un articolo pubblicato su questa rivista, durante la pandemia molti errori di ragionamento ci hanno portato fuori pista e hanno peggiorato la qualità delle nostre risposte alla minaccia (20).

Diversi biases possono aver spinto verso decisioni strategiche controproducenti. Senz’altro può aver contribuito il bias del visibile, più precisamente l’effetto vittima identificabile. I morti di COVID-19 sono in primo piano, salienti. I mass media ce ne parlano ogni giorno con insistenza. Soprattutto però il COVID-19 è una causa di morte nuova, che pensiamo possa colpirci tutti. Concentrati su questa minaccia, tendiamo a trascurare le altre cause di morte, anche le più importanti come le malattie cardiovascolari o il cancro. Sono cause di morte cui siamo abituati, le conosciamo da tempo e per effetto della tendenza alla positività abbiamo finito per sottostimarle. Grazie all’effetto terzo uomo poi ci siamo convinti che minaccino più gli altri che noi, mentre di fatto possono colpire chiunque, come il COVID-19.

Una parte importante può averla avuta il bias del presente. Presi dal problema del momento, non guardiamo agli scenari futuri. I danni delle misure adottate alla salute pubblica sono però in prevalenza danni che emergeranno chiaramente in futuro, anche se abbiamo già parecchie morti non da COVID-19, provocate dalla gestione della pandemia, e un aumento di varie malattie che riducono la nostra speranza di vita (6). Il bias dell’ancoraggio, l’autoconvalida, l’overconfidence possono spiegare come mai si sia insistito e si insista lungo la via imboccata, nonostante segnali che avvertono del rischio che i costi superino i benefici. Per effetto del bias dell’ottimismo si è puntato su azioni che dessero la speranza di liberarsi dalla pandemia. Potremmo andare avanti, ma è chiaro che gli errori di ragionamento probabilmente hanno avuto un ruolo decisivo.

11) Circoli viziosi dell’autoritarismo. I governi che hanno adottato misure restrittive per lo più sono scivolati in circoli viziosi. Non fidandosi dei cittadini, hanno imposto le misure in modo autoritario. Una volta assunto l’atteggiamento autoritario, hanno insistito ad ogni costo con l’approccio di gestione della pandemia adottato e magari l’hanno inasprito. Rivederlo voleva dire ravvedersi di fronte ai cittadini, cosa difficile anche perché portavano avanti una comunicazione pubblica errata. È ABC della comunicazione di crisi che bisogna essere trasparenti con i cittadini, dichiarando dubbi e incertezze e ammettendo errori, e che occorre avere fiducia nei cittadini e coinvolgerli nella sfida (21). Si è fatto però l’esatto contrario. Ecco il circolo vizioso: se sono autoritario e sbaglio la comunicazione pubblica di crisi non posso permettermi di ravvedermi, allora insisto col mio approccio pure se errato, divento sempre più impositivo, insisto sempre più col mio approccio e così via.

Effective COVID-19 Crisis Communication

Peter Sandman and Jody Lanard

CIDRAP - Center for Infectious Disease Research and Policy - University of Minnesota

RACCOMANDAZIONI

● Non rassicurare eccessivamente, cosa questa che in genere si ritorce contro e abbassa la tua credibilità. Questo è il più comune errore di comunicazione.

● Dichiara apertamente (non limitarti a riconoscere) l'incertezza, perché farlo è paradossalmente più credibile del manifestare eccesso di fiducia. Sii disposto a fare ragionamenti speculativi in modo responsabile, e a riconoscere le diversità di opinione.

● Conferma le emozioni: quelle del tuo pubblico e le tue. Le due emozioni più importanti da riconoscere nella maggior parte delle crisi sono paura e senso del limite.

● Dai alle persone cose da fare. Meglio ancora, offri un menu di cose da fare: cosa è richiesto come minimo, cosa è consigliato e cosa è disponibile per coloro che vogliono fare di più.

● Ammetti e chiedi scusa per gli errori, cosa che spesso è difficile fare per i leader anche se tutti commettiamo errori. Almeno ammetti e chiedi scusa per gli errori che tutti già sanno che hai fatto.

● Condividi i dilemmi, comprese le varie opzioni per uscire dal blocco. E confuta il mito seducente e pericoloso che noi possiamo uscire rapidamente dal blocco e ricostruire l’economia senza aumento di casi e morti.

● Accetta i principi controintuitivi della comunicazione di crisi e prendi coscienza del fatto che la comunicazione in caso di crisi è un campo di studio e pratica. Assicurati che tu o qualcuno nella tua squadra impariate a comunicare correttamente.

L’autoritarismo verosimilmente ha interagito, oltre che con l’errata comunicazione pubblica, col conformismo, trascinando in un altro circolo vizioso. Di fronte alle imposizioni dall’alto la gran parte della popolazione ha aderito alle richieste, per acquiescenza o perché convinta. A questo ha contribuito la comune difficoltà a opporsi alle richieste di chi è in posizione di autorità anche quando sono insolite e apparentemente discutibili, un fenomeno messo in evidenza originariamente dai classici esperimenti di Stanley Milgram (22). Avvalersi della consulenza di esperti ha rafforzato la credibilità dei governanti. D’altra parte vedere che gli altri seguivano le regole imposte dal governo ha favorito il conformismo, non solo perché si era sotto la pressione delle autorità e di una maggioranza allineata, ma anche perché nella situazione incerta il comportamento degli altri aiutava a orientarsi. Su queste dinamiche del conformismo abbiamo un filone di ricerche che comincia da classici esperimenti di Solomon Asch (23) o dello stesso Milgram (24). Quello che qui ci interessa è che il conformismo della popolazione ha alimento l’overconfidence dell’autorità, questa si è sentita sempre più sicura delle proprie scelte e non si è interrogata abbastanza sui propri limiti, i possibili errori e rischi. Ecco il circolo vizioso: se sono autoritario e ottengo il conformismo mi fido delle mie scelte, allora insisto col mio approccio, la mia insistenza genera ulteriore conformismo, insisto ancora col mio approccio e così via.

Che fare?

Sembrano ragionevoli alcune indicazioni.

1) Prendere atto del fatto che abbiamo buoni motivi per sospettare che le misure restrittive producano più danni che benefici alla salute pubblica e, come suggerisce Ari Joffe (1), fare una impegnativa pausa di riflessione.

2) Non riporre eccessive speranze nel vaccino, evitando così che la convinzione che stiamo per liberarci della pandemia distolga dalla impegnativa pausa di riflessione che va comunque fatta.

3) Avere il coraggio di ripensare e riorganizzare il sistema sanitario, che si è rivelato inadeguato.

4) Fare una comunicazione pubblica di crisi corretta.

5) Cercare di instaurare un rapporto tra governo, istituzioni e cittadini improntato al rispetto e alla considerazione reciproca e cooperativo.

6) Avvalersi del contributo di esperti di varie discipline e allargare lo sguardo, chiedendosi come conviene inquadrare il problema della pandemia.

7) Essere più equilibrati nelle misure, considerando costi e benefici e sfruttando i vantaggi della riorganizzazione del sistema sanitario, del diverso rapporto con i cittadini e del supporto di competenze interdisciplinari.

8) Cercare di ridurre i costi e di potenziare i benefici grazie ad azioni non scontate e creative.

Parisio Di Giovanni

RIFERIMENTI

1) Joffe Ari R.  (2021) COVID-19: Rethinking the Lockdown Groupthink. Frontiers in Public Health,9, 98  

2) Chin V, Ioannidis J.P.A., Tanner M.A., Cripps S. (2020) Effects of non-pharmaceutical interventions on COVID-19: A Tale of Three Models. medRxiv, 2020.07.22.20160341

3) Kuhbandner C., Homburg S. (2020) Commentary: Estimating the effects of non-pharmaceutical interventions on COVID-19. Europe Frontiers in Medicine,7, 761

4) Bo Y.,Guo C., Lin C. et al. (2021) Effectiveness of non-pharmaceutical interventions on COVID-19 transmission in 190 countries from 23 January to 13 April 2020. International Journal of Infectious Diseases, 102, 247-253

5) Liu Y., Morgenstern C., Kelly J. et al. (2021) The impact of non-pharmaceutical interventions on SARS-CoV-2 transmission across 130 countries and territories. BMC Medicine, 19, 40

6) Di Giovanni P. (2021) Oltre la pandemia. Vedere le vittime invisibili. Really New Minds

7) Räsänen P., Roine E., Sintonen H. et al. (2006). Use of quality-adjusted life years for the estimation of effectiveness of health care: A systematic. International journal of technology assessment in health care, 22(2), 235-241

8) Topp C. W., Østergaard S. D., Søndergaard S., Bech P. (2015) The WHO-5 Well-Being Index: A Systematic Review of the Literature. Psychotherapy and Psychosomatics, 84, 167-176

9) Miles D., Stedman M., Heald A. (2020). Liveng with COVID-19: balancing costs against benefits in the face of the virus. National Institute Economic Review, 253, 60-76

10) Miles D., Stedman M., Heald A. (2021) “Stay at Home, Protect the National Health Service, Save Lives”: A cost benefit analysis of the lockdown in the United Kingdom. The International Journal of Clinical Practice, 75:e13674

11) Cutler D.M., Summers L.H. (2020) The COVID-19 Pandemic and the $16 Trillion Virus. JAMA, 324(15):1495–1496

12) Ioannidis J.P.A. (2020) Infection fatality rate of COVID-19 inferred from seroprevalence data. Bulletin of the World Health Organization, 99,19–33

13) Folkman J., Kalluri R. (2004) Concept cancer without disease. Nature, 427,787

14) Gatenby R.A. (2009) A change of strategy in the war on cancer. Nature, 459, 508-509

15) Bianchi A., Di Giovanni P., Di Giovanni E. (2016) Capire la scienza. Primo passo per un approccio scientifico alla vita. Really New Minds

16) Di Giovanni P. (2020) Che ne sarà degli Stati democratici e di Welfare? So che non so, luglio, 2020

17) Bianchi A., Di Giovanni P. (2001) La cultura. Biblioteca di scienze sociali. Torino: Paravia Bruno Mondadori

18) Janis I. L. (1982) Goupthink. Boston (MA): Houghton Mifflin

19) Di Giovanni P. (2021) Il mistero tecnico-scientifico nella gestione della pandemia. So che non so, marzo, 2021

20) Di Giovanni P., Martelli A. Mascella R. (2020) Il problema degli errori di ragionamento nella lotta alla pandemia. So che non so, dicembre, 2020

21) Sandman P.M., Lanard J. (2020) Effective COVID-19 Crisis Communication. COVID-19-Center for Infectious Disease Research and Policy, University of Minnesota

22) Milgram S. (1974) Obedience to authority. New York: Harper & Row. Trad. It. Obbedienza all’autorità. Milano: Bompiani, 1975

23) Asch S. (1951) Effects of group pressure upon the modification and distortion of judgment, in H. Guetzkow (Ed.) Groups, leadership and men, Pittsburgh: Carnegie Press

24) Milgram S. (1964) Group pressure and action against a person, Journal of Abnormal and Social Psychology, 69

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