Platone l'aveva detto...
In Platone troviamo affermazioni sorprendentemente attuali, valide per noi ora, che ci ritraggono con i nostri limiti, dopo più di 2000 anni.
dicembre2020
USCIAMO DALLA CAVERNA
Noi et al.
È capitato un episodio divertente e stimolante, che invita a riflettere. Dopo aver pubblicato l’articolo sulla vaccinazione per il COVID-19, Parisio Di Giovanni ha ricevuto una email di una professoressa di economia politica.
Meglio non scrivere su cose che non si conoscono.
Inoltre:
Et al. significa essenzialmente “e gli altri”, “extra” o “in aggiunta”. È la forma abbreviata del latino espressione et alia (o et alii o et aliae, la forma maschile e femminile del plurale, rispettivamente). non et all.
Procedo a cancellare una iscrizione, a Really New Minds, che non ho richiesto.
Saluti.
Ha risposto così.
Gentilissima …,
grazie per la segnalazione dell'errore di battitura.
Per quanto riguarda l'invito a non scrivere, penso che se un testo fa nascere dubbi e obiezioni, se ne discute, specie quando si è alle prese con problemi complessi, che richiedono una visione interdisciplinare. Come ho scritto anche in questo articolo, nella ricerca l'obiettivo del confronto è avanzare nella conoscenza, non screditare l'interlocutore e ridurlo al silenzio.
Un saluto cordiale
Parisio Di Giovanni
Noi ed altri con i quali abbiamo condiviso questo scambio di email, abbiamo osservato che era incredibile che una docente di economia politica giudicasse impreparato in materia uno studioso eclettico, medico, docente di psicologia, formatore di professionisti anche della sanità, che spazia in vari campi, come le neuroscienze, l’oncologia, l’etologia, la sociologia, la pedagogia, l’antropologia culturale, la metodologia della ricerca, la statistica, fino alla filosofia, nelle sue diverse specializzazioni e discipline. Del resto erano arrivati apprezzamenti anche di medici. Abbiamo trovato offensiva la cattedratica spiegazione dell’uso di et al. fatta a chi è chiaramente abituato a fornire indicazioni sugli stili bibliografici agli studenti impegnati nelle tesi di laurea e oltretutto riportando cose facilmente reperibili sul web. C’è stato chi tra noi, riprendendo un insegnamento di corsi di formazione per docenti universitari tenuti da Di Giovanni, ha fatto notare che nel discorso su et. al. la professoressa svelava un classico errore di valutazione scolastica, avventurandosi in una scelta dubbia sul nesso prestazione-competenza. La cosa poi è irrilevante ai fini della valutazione dei contenuti dell'articolo. Ci si è spinti più in là con altre critiche alla email.
Parisio Di Giovanni, con quella sua tendenza al problem finding, ci ha subito risposto che il punto non era quello, ma la difficoltà a uscire dalla caverna. Quella docente di economia politica verosimilmente non si rendeva conto che c’è una conoscenza fuori di noi e che bisogna cercare in questa, proprio come i prigionieri del mito della caverna di Platone. Per lei il sapere si direbbe qualcosa che le persone possiedono e ognuno ha il suo patrimonio. Ancorata a questa visione, non ha avuto la forza di passare a pensare che le conoscenze che abbiamo in noi contano poco rispetto al mare sconfinato di conoscenza fuori di noi e che di fronte a ogni interrogativo occorre mettersi a cercare fuori, a studiare con umiltà. Platone parlava di conversione al filosofare, all’amore per la conoscenza, primo passo dell’anabasi filosofica, la risalita che porta fuori dalla caverna. Platone aveva anche colto che la conversione è sofferta, perché richiede di mettersi in discussione, di riconoscere che le conoscenze possedute sono insufficienti, sentirsi ignoranti, avvertire tensione conoscitiva e andare a cercare fuori.
Se le cose stanno così, non c’è da meravigliarsi se la professoressa è stata sgarbata e ha squalificato l’interlocutore. Doveva confermarsi nella sua idea di essere una persona preparata, che non ha bisogno di studiare, anche di fronte a un articolo che magari incrinava sue certezze. Così ha adottato una tipica strategia del bias di autoconvalida: la relega in un campo inattivo, come l’hanno chiamata Perelman e Olbrecht-Tyteca. Possiamo sintetizzare così il ragionamento: l’articolo scuote mie certezze, ma, siccome l’autore è un ignorante, quello che c’è scritto in questo articolo non conta e posso tranquillamente restare della mia idea.
Il problema di uscire dalla caverna è attuale. Se prendiamo i miti di Platone per quello che sono, strumenti di conoscenza per immagini, e non ci fissiamo sulla teoria dell’intellegibile, possiamo applicare i concetti al mondo in cui viviamo. Essere capaci di uscire dalla caverna è oggi particolarmente importante. Come mai? Siamo nell’era della cognizione distribuita.
La nozione di cognizione distribuita si è affermata negli anni '90 grazie al lavoro di Donald Norman e a quello di Edwin Hutchins. Fino ad allora, nonostante qualche passo in avanti della psicologia cognitiva, dominante era stata l'idea classica che la mente lavori in isolamento e che le nostre prestazioni mentali dipendano da noi. In realtà dipendono dall'interazione tra noi e il mondo circostante, cioè da come ci rapportiamo a oggetti che ci circondano, strumenti di cui disponiamo, persone con cui interagiamo. Se ci riflettiamo è ovvio. Ad esempio, un conto è la conoscenza che su un problema, come la gestione della pandemia, posso sviluppare usando i mass media o i social, altro è quella cui posso arrivare se mi documento sulla letteratura scientifica e riesco a farlo bene. A fare la differenza è come interagiscono mente e strumenti a disposizione. Ma perché questa è l’era della cognizione distribuita?
Le nuove tecnologie della comunicazione, Internet in particolare, consentono di potenziare enormemente le nostre prestazioni mentali. Rapidamente possiamo consultare un dizionario per verificare i significati di una parola, documentarci sugli stili delle citazioni bibliografiche o passare in rassegna la letteratura scientifica recente su un argomento. Su una questione possiamo confrontarci tranquillamente con altri, anche all'altro capo del mondo.
C’è però un paradosso. Nonostante oggi disponiamo di strumenti che potenziano enormemente la cognizione distribuita, tendiamo a non servircene o a servircene male. Ad esempio, anche se hanno bisogno di maggiori conoscenze sulla gestione della pandemia e potrebbero acquisirle grazie a Internet, molte persone non si servono di questo strumento o non se ne servono adeguatamente, per cui una straordinaria risorsa diviene inutile o dannosa. Norman chiarisce bene come gli strumenti siano armi a doppio taglio.
Ho due notizie da darvi sulla tecnologia: quella buona è che può farci intelligenti, ed effettivamente lo ha già fatto […] Ma…la cattiva notizia è che la tecnologia può renderci anche stupidi.
Abitualmente si insiste sul fatto che le persone si perdono in Internet, perché non hanno abilità necessarie per acquisire le informazioni, comprenderle, vagliarle criticamente. Indubbiamente è vero: gli studi suggeriscono che solo una piccola minoranza riesce a documentarsi adeguatamente sui problemi. Tra l’altro è interessante che Platone nel mito della caverna sembra accennare a qualcosa di simile: il prigioniero che si libera e arriva a guardare la luce inizialmente è abbagliato e accecato. Platone aveva fatto anche acute osservazioni sul problema della comprensione nella lettura. Tuttavia c’è un altro aspetto del paradosso della cognizione distribuita, solitamente trascurato, seppure decisamente importante. Il caso della professoressa fa riflettere su questo.
Barriere culturali scoraggiano l’uso capitalizzante (teso a crescere e a migliorare le proprie prestazioni) degli strumenti di cui oggi disponiamo. Entrare nell'ottica della cognizione distribuita richiede una vera e propria rivoluzione culturale, che mette in discussione i nostri modi abituali di pensare e di fare e le nostre istituzioni. Così non usciamo dalla caverna, non andiamo a guardare la luce fuori, pur di non sconvolgere la cultura cui siamo abituati. Il caso della professoressa mette in evidenza in particolare la difficoltà a cambiare il modo tradizionale di intendere le competenze professionali.
Siamo abituati a pensare che le competenze siano qualcosa che le persone posseggono o non posseggono. La professoressa nella sua email in sostanza dice: “tu non possiedi queste competenze, quindi meglio se non scrivi”. Se entriamo nell'ottica della cognizione distribuita non è più cosi: le competenze sono qualcosa di dinamico, in continuo cambiamento. Tecnicamente si dice che passiamo dal paradigma del possesso al paradigma della distribuzione dinamica. Nella tabella troviamo riassunte le caratteristiche dei due paradigmi. Può aiutarci a capire quanto il paradigma della distribuzione dinamica sia lontano dal nostro modo abituale di pensare un motto che lo sintetizza: non importa quello che sai, ma importa che tu sappia quello che devi sapere quando lo devi sapere. Se siamo nella pandemia, quello che conta è arrivare a sapere ora quello che ora ci serve sapere.
Nell’ottica della cognizione distribuita quello che scrive la professoressa è privo di senso. “Meglio non scrivere su cose che non si conoscono”. Non si conoscono quando? Prima o dopo aver guardato alla conoscenza fuori di noi e essere usciti dalla caverna? Evidentemente questa professoressa è ancorata al paradigma del possesso.
Cambiare è tutt’altro che facile. Per passare dal paradigma del possesso al paradigma della distribuzione dinamica siamo costretti a ripensare noi stessi. Chi sono io? Posso pensare di avere competenze sufficienti, anche limitatamente a un settore (medicina, economia politica, ecc.), per il solo fatto che ho un curriculum alle spalle, una professione o insegno la materia? Non mi resta che sentirmi sempre ignorante, non all'altezza e cercare continuamente risposte e aiuti nell'ambiente che mi circonda. Ecco che ciascuno di noi, chi più e chi meno, tende ad opporre resistenza al cambiamento culturale della cognizione distribuita.
D'altra parte, il paradigma della distribuzione dinamica mette in crisi le istituzioni così come oggi sono. Nell’istruzione, ad esempio, c’è un susseguirsi di valutazioni che portano gli allievi ad acquisire credenziali che dovrebbero fare da passaporto nella società. I docenti trasmettono pacchetti definiti di sapere e abitualmente non lavorano abbastanza per portare gli allievi a prendere coscienza che esiste un mondo sconfinato di conoscenza fuori di noi e a divenire capaci di accedervi e servirsene. Se la scuola avesse fatto suo il paradigma della distribuzione dinamica, considererebbe queste abilità una priorità. Altra caratteristica dell'istruzione, non in sintonia con il nuovo paradigma, è il fatto che gli insegnamenti sono, di solito, distinti per discipline come se ogni docente fosse il possessore di quel sapere disciplinare.
Se, nell’ottica della cognizione distribuita, dal paradigma del possesso delle competenze passiamo a quello della distribuzione dinamica, la didattica cambia. Non può ridursi a momenti in cui il docente, possessore del sapere, “riempie i secchi”, come diceva Popper. Ci vogliono momenti in cui insieme si accede al sapere fuori, si dialoga e il docente è in veste di facilitatore o tutor.
Entrare nell’ottica della cognizione distribuita e ripensare le competenze ci porta a ripensare anche il ruolo dei professionisti e degli esperti. Siamo circondati da specialisti ai quali ci affidiamo per risolvere vari problemi della nostra vita. Se ragioniamo nell'ottica della cognizione distribuita, le persone dovrebbero essere molto più capaci di sbrigare le loro faccende in autonomia utilizzando gli strumenti che oggi hanno a disposizione. Questo però comporta un cambiamento radicale in cui professionisti ed esperti non guidano paternalisticamente dall’alto, ma diventano dei tutor che supportano persone di per sé abbastanza capaci di gestire i propri problemi.
Qui si apre la questione del potere, che coinvolge anche autorità istituzionali e governanti. Ci addentriamo nella sfida dell’empowerment, nello sforzo di creare società con più potere con e meno potere su, di cui si parla dalla seconda metà del secolo scorso in vari ambiti, dalla pedagogia alla psicologia di comunità, alla medicina, a movimenti e politiche per contrastare le disuguaglianze. Nella misura in cui le persone restano escluse dalla conoscenza fuori di noi, continuerà a prevalere il potere su. La conoscenza è in realtà uno strumento di potere su se è patrimonio riservato di alcuni e se manca uno spazio comune dove confrontarsi. In questo momento è facile rendersi conto di questo: basta avere occhi (teorie) per vedere. A ben guardare, per la professoressa di economia politica Parisio Di Giovanni ha violato la regola del segreto e della non condivisione delle conoscenze, mettendo in discussione la dipendenza dall’autorità. Di questo sembra rimproverarlo, tant’è che non entra nel merito delle questioni.
Le barriere ci sono, potremmo andare avanti ad analizzarle, ma forse è ora di cominciare a chiederci se non è il caso di uscire dalla caverna. Qualche volta potremmo lasciar perdere chi siamo, quali competenze possediamo, sentirci ignoranti e umilmente andare a studiare sfruttando le opportunità dell’era della cognizione distribuita.